Alcuni sentieri che partono dalla valle vicino a cui dimoro sono ricoperti dalla merda delle capre assassine. Un capro demoniaco, barbuto, nero come l'ombra di uno stivale di notte in una foto in bianco e nero, era stato disturbato dal nostro arrivo improvviso e, per lui, improvvido. Alla sua fuga per le rocce grigie era seguito un mio sorriso. La fine di un amore, le urla inumane della malvagia città, gli orrori tutti delle perdite, delle malattie, delle forze spese nel tentativo di ritrovare la salute e un equilibrio meno instabile: tutto ciò spariva di fronte ad un capro selvatico che fuggiva nel bosco e nel sole.

Proseguimmo per la breve ferrata. Tornò ad erigersi il sentiero. Un grido da parte di C. Un grido da parte del fianco del monte, un grido di pietra e di morte. Il dannato emissario del demonio si era inerpicato, aveva smosso i resti di una frana e aveva rischiato l'omicidio. Una pietra grande come due teste e una moltitudine di pietre minori ci aveva sfiorato, come la morte.

Non come la morte, ma come un mite vento, mi ha sfiorato "The Invisible Man" di Darrell Scott. Il caprigno cantautore di London, Kentucky, ne sono certo, avrebbe cantato delle stesse vicende, se fosse vissuto presso i nostri paesi sconosciuti. Prendete "The Dreamer". Accompagnato da un mandolino F-style semplice ma cristallino e da radi colpi di percussioni simili a serpi discrete Darrell canta la vicenda (autobiografica?) di un giovane pastore che lascia gli armenti e il natio Tennessee, cercando oro verso nord e promettendo un glorioso ritorno all'amata. La quale, non paga di disprezzare la fiducia del cercatore d'oro e d'amore, lo abbandona per un ben più facoltoso medico, spingendo il giovane verso il suicidio. Dalla morte per sua stessa mano lo risparmierà la sua qualità aurea, purissima, di sognatore. Nelle piccole valli venete percorse da rughe finissime e disegnate da torrenti nascosti sotto il tetro manto delle pietre erbose, c'erano stirpi di uomini che sognavano la ricchezza del tabacco di contrabbando come una fuga da un mondo di irti terrazzamenti, di ombra e di morte. Le vicende degli uomini semplici sono collegate da sempre e sono legate tra loro in ogni luogo dalla stretta trama del sogno e del bisogno: due volte sogno, condizione terribile perché richiede la forza di squarciare un velo, fisico e spirituale, che non tutte le energie umane possono sostenere.

Ho sempre ascoltato la quinta traccia, "The Invisible Man", con un ideale dito medio alzato contro gli abomini grotteschi dell'epoca in cui ci è dato di vivere, che in seguito si traduce in insulto alla divinità creatrice di questo mondo sciagurato e infine in negazione della stessa. Una continua giostra di morte e tedio ci avvolge. Possiamo meditare o bere fino allo sfinimento, andare a puttane o piangere su un puro amore perduto ma qualunque avvenimento non cambia l'invisibilità forse insuperabile che si instaura tra di noi. Possiamo raggiungere l'estasi dell'amplesso e vedere distese bruciate dal sole, fumare un sigaro in silenzio o vagare per una città ostile. Uomini invisibili siamo e restiamo. Nego dio anche per questo. Inviterei l'essere onnipotente a vedere quale essere disperato è riuscito a creare. Pianto e stridore di denti sono qui tra noi e noi ne siamo immersi. A diversi livelli siamo costretti a penare per un tozzo di pan secco, per una frazione di amore, di attenzione, di tenerezza. Dalle viscere di una terra ormai inumana dobbiamo estrarre nutrimento, dalle viscere delle nostre anime dobbiamo spremere quella volontà sufficiente per compiere lavori privi di senso, per poi finire poi nella terra.

Se ci sono momenti di tregua dalla disperazione, questi si nascondono nelle valli, nei prati, rimangono circondati dai fiumi e dai fuochi che accendiamo nella notte. Nel superamento della nostra assurda invisibilità, nella ricerca dolorosa di un vero amore e in quella gioiosa del prossimo.

Così si snoda "The Invisible Man", in un affresco sonoro di folk (Hank Williams' Ghost), cantautorato waitsiano (il suono del pianoforte di "Looking Glass" sembra uscire direttamente da "Closing Time"), rock desertico e potente (Do it or Die Trying) ed esperimenti reggae-bluegrass (Goodle,USA).

E, per non fare l'errore contro il quale ci mette in guardia Brecht, questo è un disco di Darrell Scott che sarebbe risultato irrealizzabile senza la geniale truppa di artigiani accompagnatori: Danny Thompson, bassista di Richard Thompson e Rod Stewart, Kenny Malone, batterista di JJ Cale e Johnny Cash, Richard Bennett,chitarrista di Emmylou Harris e Mark Knopfler, il mostro sacro Sam Bush, mandolinista e fiddler, Gabe Dixon, tastierista di Paul McCartney. Il tutto cesellato da Gary Paczosa che regala all'opera una definizione acustica sorprendente ed un'attenzione ai dettagli rara in un disco a sostanziale base folk.

Onestà, sofferenza e redenzione.

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