Usciti dal cinema, un po’ allucinati, Giulia mi fa: «Mi sbaglio o c’erano parecchi riferimenti biblici?». Ed io, che ero già partito con la supercazzola sulla mia interpretazione del film: «Uhm, non credo». Poi arrivato a casa apro internet e leggo che Aronofsky ha spiegato tutto il metaforone nel dettaglio eccetera. Non lo leggo neanche tutto perché mi pare proprio poco interessante.
Sembrerà assurdo, ma il fatto di non aver colto il parallelismo e aver letto tutti i simboli come metafora di qualcos’altro (che dopo spiegherò), mi ha convinto ulteriormente della bontà del lavoro fatto dal regista. Mi spiego meglio. Madre! può avere diversi livelli di lettura. C’è quello di chi lo guarda (in modo scriteriato ovviamente) come una vicenda normale, senza rimandi metaforici: è quello che ho letto su alcune facce alla fine della proiezione: «Ma che cazzo è??». A questo livello, la vicenda è semplicemente un delirio angoscioso fine a se stesso.
C’è il livello di lettura metaforico e rigoroso, quello spiegato dal regista. Un metaforone biblico (qui viene spiegato) che definire stucchevole è poco. Come scritto su i 400 calci, non proprio un’idea brillante. Senza contare che un’interpretazione rigorosa di tutti i simboli non fa altro che creare un’infinità di domande e aporie. «Se tizia è … e tizio è … allora perché in quel passaggio…». L’opposto di quello che dovrebbe essere il cinema. Uno potrebbe dire, è la lettura di Aronofsky sulla Bibbia. Ma siamo sicuri che sia davvero interessante? Per me è un giochino infantile e inutile.
Terzo livello di lettura è quello libero, quello in cui mi sono buttato io. Sono partito con un’idea precisa del metaforone insito nel film e l’ho portata avanti fino alla fine, con grande soddisfazione per gli sviluppi. Non un'interpretazione trascendente e divina, ma più profondamente umana e comportamentale (in coda alla recensione). Poi ho letto la spiegazione di Aronofsky e un po’ mi sono caduti…
Eppure, questo abbaglio che ho preso mi ha fatto capire ancora di più che questo è grande cinema. Non per le idee, non troppo fresche e raffinate da parte dello sceneggiatore, ma per la loro trasformazione in immagini. E quelle immagini, come ogni forma d’arte, una volta che sono liberate dal giogo autoriale assumono una loro vita propria, e ognuno può interpretarle a modo suo. Come ho fatto io.
Registicamente ci non si può davvero lamentare. Un uso particolarmente accurato della macchina da presa, giochi di sguardi sfuggenti, prospettive variabili che creano mistero. Ecco, sulla realizzazione del film non si può proprio fare alcuna obbiezione. Colori, suoni, oggetti, pareti, porte: tutto parla, tutto dice un’angoscia terribile e costante. Il regista, come già fatto, ma forse questa volta meglio del solito, sa raccontare benissimo una soggettività e non lesina trucchetti per amplificarla. Questo può non piacere, ma è il suo stile.
Jennifer Lawrence dopo tanti filmetti dimostra le sue qualità ed è davvero perfetta per la parte. Bardem, Ed Harris e Michelle Pfeiffer sono ovviamente bravissimi.
Da qui ci saranno anticipazioni.
Veniamo alla mia interpretazione: io, banalmente, ho visto rappresentato metaforicamente il ciclo vitale dell’amore, della procreazione, della vita (tumultuosa) e della morte. La madre (ma prima solo moglie) è soffocante, tende a creare un limbo isolato dalle brutture del mondo, per vivere fuori dal tempo e dallo spazio con il suo uomo, Lui. Costruisce la casa, la loro vita coniugale, mentre lui lavora: ognuno fa la sua parte. Poi su pungolo di un’altra donna vuole procreare. Quando rimane incinta lo sa subito. Intanto la vita che è entrata nella loro casa dà ispirazione al marito, che crea, scrive e ha successo. Il successo porta altre presenze in casa, la loro vita di coppia viene attraversata da presenze continue. Ormai non esiste più intimità e la vita è sconquassata dagli altri uomini.
Giusto al momento di partorire il suo compagno riesce a barricarsi con lei in una stanza. Fuori il mondo tace per rispetto, perché l’orrore quotidiano si ammutolisce di fronte alla vita che zampilla. La madre è ovviamente gelosa della sua creatura, non la lascia nemmeno un attimo. Poi per stanchezza cede un solo istante e il piccolo è portato in mezzo alla vita dal padre. Ma la vita è un tumulto. Il figlio muore. Il padre però vuole perdonare le persone, la madre no: lei ha dato tutto per quel bambino, la sua vita non ha più senso. Allora incendia tutto, a partire dall’angolo più riposto della sua coscienza. La sua vita è terminata, ma ha un diamante interno da cedere alla generazione successiva: è l’istinto materno, è il retaggio che ci porta a procreare. Non conta quindi se una vita fallisce, ci sarà sempre quel diamante interiore che darà l’impulso a infinite nuove madri.
Un po’ Mother dei Pink Floyd, un po’ l’Iduzza di Elsa Morante. Io in questo film ci ho visto un ritratto disincantato, crudissimo e per questo sociologicamente interessante, di un po’ tutte le madri e mogli. Mi sembra di gran lunga più godibile e sensato del metaforone biblico, che pure c’è ma non dà granché in termini conoscitivi. Invece questo parallelismo più umano e terra terra mi ha solleticato. Chiaramente, quella di Jennifer è una donna molto possessiva, morbosa, angosciata e insicura. Però credo che, pur amplificata, rappresenti bene un certo sentire materno che chi non è madre o a maggior ragione chi non è donna non può capire. Il personaggio di Bardem non fa propriamente del male, c’è per la sua compagna, ma si apre anche alla vita e agli altri, mettendo in pericolo il loro nido agli occhi della donna. Una madre vorrebbe invece eternare il silenzio di quei momenti in cui tiene il suo piccolo appena nato tra le braccia: «Falli andare via».
Quante pieghe si possono trovare in questa storia così apparentemente semplice? Questo per me significa grande cinema.
7.5/10
Carico i commenti... con calma