Siamo all’alba di una nuova epoca e di una rivoluzione totale, tanto grande da contenere un’enorme oscurità, un nodo apocalittico da sciogliere per proseguire verso un mondo nuovo, necessario, da ricercarsi con urgenza. Un mondo dotato di infinite possibilità di autodeterminazione, autodifesa e preservazione, a totale disposizione di nazioni, società, specie, e di ognuno di noi. Bisognerà incamminarsi lungo percorsi duri, solitari, prendere confidenza con il vuoto, le insidie e le luci delle galassie, fino a riconoscere la sofferenza e l’innocenza diffusa, in una riproposizione universale e amplificata della passione. Dio è quello che calpesti, quello che osservi e di cui ti nutri costantemente. E lo ignori. In futuro forse saranno la disperazione e la solitudine, a fare la storia. E allora una lacrima o un sorriso potranno davvero fare la differenza. Illuminare distese di sabbia detritica e recentissimi mari. Se poi è un adolescente inquieto e sensibile, a vivere questo momento di passaggio, la sua colonna sonora interiore potrebbe benissimo suonare come “Music from Before the Storm” dei Daughter, uscito nel 2017, appena un anno dopo “Not to Disappear” e a quattro anni dal primo, bellissimo “If You Leave”.

Before the Storm è il prequel di Life is Strange (2015), avventura grafica a episodi sviluppata da Deck Nine Games, che ha conquistato critica e pubblico, oltre che un BAFTA (British Academy Television Awards), per il suo racconto delicato e toccante delle vicende interiori di giovani adolescenti, in particolare della sedicenne Chloe Price e della sua migliore amica, Maxine Caulfield, alle prese con problemi della vita reale come il bullismo, il suicidio, droghe e gravidanze precoci.

A un primo livello, questo potrebbe essere definito un album indie o post-rock post-femminista, concepito oltre l’altissima onda di #metoo, in quel mondo nuovo in cui cominciano a brillare mini serie come Sharp Objects (che esplorano e raccontano universi e luoghi, ombre, sindromi e perversioni tutte al femminile). A un livello più profondo, più universale, è musica in grado di tratteggiare paesaggi sonori emotivamente carichi, intensi. Come nuvole prima della tempesta, appunto. Di aprire sottili fessure nella trama incerta della nostra vita e del nostro tempo, dalle quali respirare, sfogare la rabbia, anzi lasciarla evaporare al sole trasversale di terre desolate e inesplorate. Dove scrivere, disegnare, giocare, ascoltarsi. Fermarsi. Dove esplorare ed elaborare anche quello che viene prima e dopo la tempesta, o tra un lampo e l’altro. Una volta si diceva che a mezzanotte si apre sempre una piccola lacuna tra il giorno che finisce e quello che inizia, e una persona molto agile, in grado di scivolarci dentro, sarebbe sfuggita al tempo. In quei momenti sospesi, elettrici, carichi di promesse mai mantenute e mai ignorate davvero, che poi sono le provincie in cui devono necessariamente manifestarsi i sogni, sta il vero pregio della raccolta. In quel vuoto messo a disposizione per non scomparire.

Perché siamo frutto delle azioni e dei sogni disperati delle generazioni precedenti, quelle della guerra, degli stermini, dei boom economici e delle rivoluzioni industriali. Siamo il risultato di un’infinita serie di sogni malati, o distratti, trascurati, dimenticati, sterminati, posticipati. E forse solo adesso, ormai negli anni ’20 del duemila, possiamo iniziare a sentire davvero. A riposizionarci oltre le enormi ombre cinesi che, in una società emotiva come la nostra, generano ansie e paure. E a farlo anche attraverso gli occhi inquieti, rapidi, dolci, reattivi, arrabbiati, abbagliati degli adolescenti. Ascoltando la loro musica interiore. È quello il mare che cerchiamo. I suoi pieni e i suoi vuoti. Forse gli unici che riescano ancora ad ispirarci davvero. E non solo perché il linguaggio è così deteriorato che ormai è difficile trovarvi termini utili. Fa tutto parte dell’obiettivo, rendere impossibile parlare (Ho sempre detto di essere una brava ragazzina/ Ho sempre detto di essere brava con le parole/ Non ho mai pensato di poter restare senza parole/ Non so come romperò questa maledizione canta Elena Tonra in “Burn It Down”).

Si tratta di sfregare uno contro l’altro i legnetti delle nostre esperienze, e di non smettere mai, sicuri che prima o poi una scintilla nascerà. Questo dipende da noi. Dalla nostra natura. Dall’indole e dalla forza. Se abbiamo tenuto acceso il fuoco dentro. Se tendiamo a partire o a tornare. Dipende dal tempo che ci stiamo mettendo. Con quanta violenza e con quanto amore, con quanta dolcezza le cose ci si sono rivelate.

E’ una continua ricerca di equilibrio tra le parti, che qui si bilanciano, tra esplosioni inattese, ritmate e decise (“Glass”, “Burn It Down”, “Dreams of William”), vari passaggi strumentali -la cullante “Flaws”, “Voices”, che può ricordare il folk dei Mùm o degli ultimi Sigur Ròs, o “The Right Way Around”, un dialogo stiracchiato e minimalista tra una chitarra, un basso e una batteria- bozzetti cinematici quasi neo-classici (“Departure”) per luci, ombre e fantasmi elettrici sospiranti (“I Can’t Live Here Anymore”) e brani in cui ritorna il cantautorato elettro-folk, la dark-wave di matrice romantica e il pessimismo sognante dei primi album (“A Hole in the Earth”, “All I Wanted”). Ne risulta musica per universi paralleli, perfettamente combacianti, dove ogni pieno è messo di fronte al vuoto che crea, e viceversa. Perché c’è un buco nella terra, qui/ E noi stiamo camminando intorno ai margini.

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