Quante volte ci si sente inadeguati? Se rispondessi io direi milioni.

Se rispondesse Timothy risponderebbe una per ogni membro della sua Famiglia. E sono tanti. Arrivano dal cielo, arrivano da lontano, arrivano come la nebbia, arrivano in mezzo alle foglie d'autunno, arrivano squarciando il cielo d'Ottobre, arrivano. Anzi, tornano. Tornano a Casa. Timothy è impaziente di vederli tornare, vuole stare in mezzo a loro, godersi la notte, per una volta, lui che di norma ci dorme, la notte. Non come loro che della notte sono padroni, bestie assurde, occhi fuliginosi, poteri mostruosi. Lui no. E' malato. La malattia che lo pervade è univoca e non lascia scampo e si chiama vita. Parla con sua sorella Cecy, che può vedere attraverso gli occhi di chiunque, vivere la vita di chiunque, senza vivere la sua, stando ferma nell'attico pieno di sabbia, parla con Arach, un ragno che vive in una scatola di fiammiferi, e parla con uno degli invitati alla festa macabra che si terrà di lì a breve, lo Zio Einar, l'unico con le ali, che lo rassicura, lo illude forse, che un giorno volerà anche lui. Illusioni, tristezza, una morte certa.

Quando uscì per la prima volta il racconto, nel 1946, c'erano le illustrazioni di Charles Addams (la cui celebre Famiglia era speculare a quella di Bradbury). Ora, nella versione in lingua originale che stringo io, figlio di tutt'altra generazione, nato quarant'anni dopo la prima stampa, ci sono i disegni di un maestoso Dave Mckean che traduce con le sue ombre storte, i suoi visi allucinanti, le linee dritte e madide di follia, ora le paure di Timothy, ora le folli Pavane che si tengono nel salone della Casa, ora tele di ragno a formare parole di diniego. Ora la tristezza, ora la paura, come fossero figlie sue. 

C'è l'amarezza folle di Bradbury, ci sono le ombre con cui dipinge la tela dei suoi libri, c'è qualcosa che non si riesce a toccare. E che forse va lasciato lì, a sopire, come i mostri della Famiglia. 

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