Le bianche ore del Duca,
ovvero canzoni come stanze illuminate dal neon.Credevamo che David Bowie negli anni '90 stesse costruendo un mosaico e che "Buddha Of Suburbia", "1.Outside" e "Earthling" fossero ottime tessere a cui si doveva aggiungere "Hours...". Evidentemente credevamo male, poiché con questa uscita l'ex-Duca distrugge ogni aspettativa (ma non l'ha sempre fatto?) e ci consegna qualcosa di molto soft e nostalgico con pochi momenti brillanti e tanti altri molto deboli.
La copertina ci dice già molto: il Bowie del '99 tiene in braccio e abbassa gli occhi su una specie di Ziggy-Nathan Adler sdraiato e agonizzante che a sua volta guarda oltre la copertina, forse verso un lontano passato o l'immediato futuro. La grafica è un po' futuristica un po' ospedaliera, e il disco nell'insieme dà l'idea di qualcosa di malaticcio, non malato come poteva esserlo "1.Outside", piuttosto vagamente disperato e disilluso.
Già da "Thursday's Child", brano d'apertura e singolo di successo che dondola tra cori e archi, sentiamo che tutti i testi e gli arrangiamenti sono impregnati di rimpianti: David ci parla di amori perduti, di giornate sprecate, di solitudini malriepite, e per farlo usa una musica che vorrebbe un po' ammiccare al passato (ad "Hunky Dory" dicevano i critici del tempo, ma non mi hanno mai convinto), un po' costruire il suono pop del futuro, fatto di atmosfere algide, fredde, cristalline, come quelle della stanza bianca in cui è immersa la copertina. Dalle parole dell'artista emerge una vita fatta di indecisioni, di scelte sbagliate nei tempi sbagliati, e le sonorità ovattate dell'album, dalle chitarre di Reeves Gabrels al missaggio di Mark Plati, sembrano suggerirci queste tematiche: ci sono gemme acustiche come "Survive" e "Seven", straziati ricordi al passato remoto come "Something In The Air" e "If I'm Dreaming My Life". Talvolta l'autore cerca di autoconvincersi di essere ancora un dragone e una droga, come nell'elettricità fracassona di "The Pretty Things Are Going To Hell", ma i risultati sono piuttosto monotoni e risibili. Lo stesso effetto purtroppo viene creato anche dalla strumentale "Brilliant Adventure", pseudo-accenno ad una Berlino orientaleggiante.
Se finora il disco si è lasciato ascoltare senza infamia e senza lode, gli urtanti episodi "What's Really Happening" e "New Angels Of Promise" fanno precipitare tutto questo impasto "elettro-pop" (?) mal lievitato nell'urticante fastidio di voler spegnere lo stereo. Per fortuna ci salva l'elettronica in finto-Eno dell'ultima "The Dreamers", che solleva di mezza tacca (e mezza tacca è poco!) il senso di disorientamento generale e di sbadiglio di questo lavoro.
Nell'estate del 1999 conobbi Bowie grazie al film "Velvet Goldmine" e ad una primitiva passione per il glam, e questo "Hours...", uscito nell'autunno dello stesso anno, era il suo primo disco che acquistavo "in diretta", perciò ai tempi ero molto entusiasta e lo apprezzai parecchio. Dal momento che ci sono affezionato e che un po' mi ricorda le atmosfere di quel periodo liceale, fatto di sonni al neon, indecisioni ed ore infinite, dovete capire quanto mi spiace parlarne in questo modo, ma mi risulta difficile fare altrimenti soprattutto sapendo che fu preceduto dal geniale "Earthling" e seguito dallo splendido "Heathen".
da "Something In The Air"
Lived with the best times
Left with the worst
I've danced with you too long
Nothing left to say
Let's take what we can
I know you hold your head up high
We've raced for the last time
A place of no return.
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