"Il camaleonte del rock": questa è la definizione più usata (e abusata) dalla stampa generalista per definire David Bowie. Indubbiamente i suoi dischi fino al 1980 offrono un campionario di stili e linguaggi differenti, e rappresentano delle opere in buona parte imprescindibili per l'appassionato di musica rock come per lo studioso del costume pop. "Let's dance" si colloca apparentemente agli antipodi del percorso di ricerca musicale seguito fino ad allora, motivo per il quale rappresenta per il fan storico una delusione e un deciso passo indietro.

Contestualizziamo: nel 1983 Bowie viene da 5 album non adeguatamente supportati dalla sua casa discografica di allora, la RCA, che ha tollerato a fatica il percorso di ricerca musicale intrapreso con "Station to Station", la fusione di new age, ambient  e elettronica in salsa pop di "Low" e "Heroes",  l'embrionale etno pop di "Lodger", e la sintesi di "Scary Monsters". Tuttavia, i singoli (con relativi video) tratti dall'ultimo lavoro dimostrano un appeal commerciale intatto, che allo scadere del contratto RCA, dopo un'asta al rialzo, gli consente di accasarsi presso la EMI, con anticipo multimilionario e opzione per cinque dischi.

Il profumo dei soldi, destinati a moltiplicarsi con un giro globale di concerti, impone materiale immediato e più fruibile, un pop dance patinato, con venature soul ma senza alcuna velleità di ricerca musicale. Il disimpegno è palese anche in studio: colui che un tempo smanettava su tutti gli strumenti ora non suona una sola nota, e affida la produzione a Nile Rodgers e al suo fiuto da classifica (Chic e Diana Ross, prima di essere addescato dalla signorina Ciccone per Like a Virgin). Gli altri musicisti convocati sono degli onesti turnisti, nulla a che vedere con la triade Davis-Murray-Alomar impiegata negli album dei tardi '70: si distingue Steve Ray Vaughan, ottimo chitarrista blues, che però non riesce a "caratterizzare" più di tanto i nuovi brani (come aveva fatto, ad esempio, Fripp su "Heroes" o Scary Monsters). In relazione al look (siamo negli anni '80!) la chioma si accorcia e si tinge biondo platino, buona per adolescenti ma anche per famiglie, l'ex algido duca bianco è ora un eterosessuale che ammiccaballando e pomicia sulla spiaggia nel video di "China Girl", un pugile sulla copertina dell'album e un entertainer di classe nei concerti.

E' una mossa azzeccata: primo posto ovunque, trainato da "Let's Dance", "China Girl" e "Modern Love" che finiscono sul podio un po' ovunque nel globo. I singoli, nel loro genere, sono tre ottime canzoni, hanno ritornelli che si stampano in testa, e danno il via ad una serie di hits che infesteranno le chart per il decennio, in cui è palese il desiderio di compiacere il pubblico e di sfruttare l'onda lunga del successo, tra uno spot televisivo, un film e una colonna sonora. In questo senso è esemplare "China Girl", rifacimento di un brano scritto con Iggy Pop ed inciso nel 1977: laddove l'originale cantato da Iggy è urticante, un proto-grunge con una linea vocale via via sempre più urlata e disturbante, il rifacimento del 1983 è pop (nel senso letterale, cioè popolare e fruibile) levigato, tastiere e una bella linea di basso, un riff di chitarra appiccicato come una cartolina dalla Cina, vocalmente parte bassa e confidenziale, per poi esplodere in potenza e ritornare intima ("oh baby, just you shout your mouth, she says ...shhh....") nel finale.

Al di fuori dei tre pezzi citati l'album è dimenticabile, banalotto, a tratti imbarazzante, e non è nemmeno un efficace spaccato di quegli anni, diversamente da altri dischi pop dell'epoca invecchiati meglio (tanto per dirne uno, Rio dei Duran Duran): parte del materiale è anche valido, ma è ridimensionato da una produzione non all'altezza dei singoli, "Cat People" è guastata da una batteria troppo pestata, "Ricochet"  ha uno stile vocale troppo baritonale e compiaciuto, "Without You" ha un falsetto fastidioso, per non parlare dei sintetizzatori che starnazzano un po' ovunque.

L'ennesima trasformazione del camaleonte gli porta però il grande pubblico e i soldoni, quelli veri: è l'inizio di una involuzione che fa impantanare Bowie in una palude creativa dalla quale uscirà dopo due lustri, ma questa è un'altra storia.
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