Lo sappiamo, David Bowie non è uomo di questo pianeta, non in senso stretto, quantomeno. È l’uomo che è caduto sulla terra, ma che non appartiene alla nostra razza. Ancora una volta sbaraglia e sconnette ogni parametro, ancora una volta fa e farà parlare di sé come uno degli ultimi geni musicali contemporanei. Se ne esce con questo Blackstar e, guarda caso, nel giorno del suo 69esimo compleanno, e già da un paio di mesi se ne parla come capolavoro di innovazione e di musica del futuro. “Se una cosa funziona, buttala” ha sempre detto, anche questa svolta niente e nessuno lo può smentire. Nel corso di un soggiorno a New York, un’ amica lo porta in un localino jazz di Manhattan, dove ascolta una band guidata da un sassofonista, Donny McCaslin. Si parla di jazz, un genere musicale certamente non molto presente nella discografia di Bowie, eppure, con lungimiranza da veggente, vede già il gruppo suonare sul suo disco, ne assapora già il senso di frammentazione e disorientamento che potrebbero dare questi jazzisti alla sua musica. Certo che Bowie si è sempre attorniato di musicisti e tecnici sopraffini, inutile fare nomi, ma la band jazz, sì è una novità. E quindi, cosa succede? Beh, il risultato è questo Blackstar, il cui vinile gira sul mio piatto ininterrottamente da questa mattina alle 10. Composto e inciso tra la fine del 2014 e la metà del 2015 con qualità che dire superiore è dire nulla. Bowie dimostra di essere unico, in ogni scelta, in ogni forma. L’arte è la sua arte e in ogni istante deve trasmettere quello che lui è, sente, vive, sperimenta, assapora. Già da qualche settimana girava una sorta di singolo, alquanto anomalo, con un brano, “Blackstar” di 10 minuti, che unisce suoni di avanguardia rock, pop, suoni nuovi e ritmi molto ricercati, persino di provenienza trip-hop e dub. Sono sprazzi sincopati che si affacciano su territori davvero poco esplorati e cambi d’atmosfera, cambi di ritmo e tonalità trame variegate che partono, si dividono per andare in mille direzioni per poi tornare a riconoscere se stesse con molteplici sfumature. Qualche momento rimanda a cose già sperimentate da Scott Walker, ma questo è il male della musica d’oggi. L’altro brano che già si è ascoltato prima dell’uscita, “Lazarus”, è un crescendo sublime e il suo finale è davvero pura sublimazione, un passaggio di stato è ciò che da solido, palpabile, diviene gassoso, etero, angelico. Ma, ovviamente, non basta e non è tutto qui. C’è ad esempio la buffa anomalia pop della conclusiva “I Can't Give Everything Away”, una sorta di esperimento sociale che vuole chiudere un’opera prevalentemente cupa e dai toni secchi e dark, con una certa apertura tonale e dagli impasti evocativi. E in mezzo tante, tante cose sulle quali spesso domina, oltre alla voce sempre più calda ed espressiva, il sassofono, vero alter ego, contraltare di questo lavoro, al pari della chitarra di Alomar per tanti altri dischi del passato. Esempio ne è “Sue (Or in a Season of Crime)”, obliquamente (per dirla alla Eno) fusion, già presentata nella compilation del 2014, “Nothing Has Changed”. Il jazz si ammala, si contamina con il soul, tende a prevalere e poi a sparire e riapparire, in sette minuti di note lunghe e mai codificate. Altro pezzo forte del disco, la contorta sceneggiata di “Tis A Pity She Was a Whore”, opera da palcoscenico dove ogni strumento è attore e con un po’ di gigioneria, talvolta grottesca, si spinge al limite delle possibilità. Non che i brani non citati non meritino la citazione e un mio micro giudizio, no. E’ che possiamo parlare ancora tanto e non aggiungere assolutamente nulla alla bontà reale e assoluta di questo disco. E allora chiudiamo qui.Bowie, da alieno sulla Terra a pazzo profeta cieco di un futuro che lui ha già in mano e chissà da quanto. E allora, vogliamo chiamarlo pop? Possiamo anche, ma forse e più semplicemente, Arte è meglio.
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