"Stage". Il Duca Bianco aveva già quasi completato il puzzle berlinese. Si può anzi dire che il cuore del mosaico mitteleuropeo si era già tradotto in atto.

Questo live testimonia il tour che seguì la pubblicazione di "Heroes", nel 1977. Tuttavia, per comprenderlo a fondo occorre brevemente occuparsi dei due album precedenti, nei quali il Duca si era inserito nella scena avanguardistica europea, sviluppando suggestioni macchinistiche derivate, nel campo musicale, da un certo "sentire comune" verso un mondo moderno (immaginato come) privo di umanesimo, schiacciato dall'onnipresenza delle creature artificiali e dall'incubo atomico. Queste tendenze, o bisogni dell'anima, in America non potevano aver sfogo, c'era bisogno dell'Europa; ed è proprio qui che Bowie decide di trasferirsi, dopo la sbornia soul.

A Parigi incide gran parte di "Low", con l'ultima mano affidata a Brian Eno, e poi a Berlino, Hansa by the wall, con Robert Fripp e Brian Eno (dall'inizio però). L'humus intellettuale trovava in Germania terreno fertile, soprattutto (ma non solo) nelle opere classiche dei Kraftwerk e Neu!; dal lato dell'orientamento artistico il riferimento è sicuramente a Orwell, alla cibernetica e alla descrizione del mondo alla "Metropolis". Inutile dire che Berlino racchiudeva magistralmente queste pulsioni culturali, nelle contraddizioni esistenti tra un passato aristocratico, ma completamente distrutto, ed un presente segnato dalla tragedia del Muro: insomma, quell'aria che si doveva respirare nella Roma del IV secolo, descritta per mano di Thomas Couture ne "I romani della decadenza", esposto all'Orsay, tanto per rendere l'idea. Tra l'altro Bowie, ancora non Duca Bianco, aveva un debole per questo tipo di tematiche: si veda "Drive-in Saturday", oppure l'album "Diamond dogs".

"Stage", uscito nel 1978, non è altro che la testimonianza dal vivo di questo ambiente ideale. Troviamo un Bowie perfettamente a suo agio, nel rivestire i panni del distaccato intellettuale post-moderno. Si presenta al pubblico con pantaloni larghissimi, maglietta bianca e pettinatura vagamente anni trenta. Uno stile, insomma, che esalta l'attitudine presente per tutta la durata del concerto: l'algido e aristocratico distacco, atmosfera glaciale e perfezione formale.

I brani che il Duca ci presenta provengono, essenzialmente, da "Low" e "Heroes", a parte la parentesi dedicata al mitico Ziggy Stardust. Vi sono anche eseguite le composizioni strumentali che, nei due album menzionati, si trovavano nelle facciate B, tra cui "Warsawa", "Sense of Doubt" e "Art Decade". Non mancano, d'altro canto, i pezzi più rappresentativi del Bowie versione Duca, come "Speed of life" brano di apertura di "Low"; "Heroes", semplicemente una delle più emozionanti canzoni d'amore di sempre, e "Beauty and the Beast", costruita su un semplice riff, su cui si rincorrono fredde folate di tastiera. Per non parlare della tormentata "Breaking Glass", immersa tra reminiscenze (plastic)-soul ed un deciso andamento robotico.

Il finale del concerto, purtroppo non del disco, era affidato alla canzone-manifesto "Station to Station", qui magistralmente eseguita. Composta e registrata in America, racchiude e incarna l'urlo d'amore per la vecchia Europa: "Non sono gli effetti collaterali della cocaina, penso che sia amore […] il Cannone europeo è qui!".

Dietro le glaciali suggestioni l'album trasuda emozioni, non semplici da descrivere. Difficilmente la musica si traduce in immagini, come in questo caso… per questo il bisogno, sopra, delle citazioni.

In fede, Lautrec

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