Spesso viene fatto coincidere l’inizio dell’epoca d’oro di David Bowie con l’uscita di best-sellers come “Hunky Dory”(1971) e soprattutto “The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars”(1972). In realtà la maturazione del nostro camaleonte prende già avvio col classico dimenticato “The Man Who Sold The World”(1970).
Allontanatosi ormai definitivamente dall’influenza della music hall di Anthony Newley che aveva caratterizzato i derivativi esordi, Bowie lascia a fermentare il trip-acid-acustico di "Space Oddity", mette su una band e con questa decide di creare un nuovo suono, un nuovo approccio a una nuova musica.
Non poteva sapere a quali incredibili risultati l’avrebbe portato la neonata collaborazione con Mick Ronson, non poteva prevedere il proprio destino musicale, sapeva solo che questo era uno degli ultimi tentativi che aveva a disposizione per forgiare finalmente lo stile personale e autonomo che stata cercando di ottenere da anni. Dal punto di vista commerciale l’opera risultò un mezzo fiasco, e non solo per la quasi assente appetibilità commerciale di queste nove corposissime tracce, ma anche per la mancanza di un vero “singolo bomba” spacca -classifiche. Visto il talento dell’artista anche nel comporre pezzi più mainstream possiamo dedurre che in questo momento l’interesse di Bowie fosse completamente assorbito dallo sforzo di elaborare una propria solida dignità artistica. Gettando le fondamenta non solo per le sue evoluzioni successive, ma per gran parte degli sviluppi futuri del rock moderno, l’album non solo colma le aspettative, ma finisce per diventare l’album “proto” per eccellenza: possiamo individuarvi germi proto-metal, proto-glam, proto-grunge (non solo nella title-track coverizzata da Cobain), proto-punk, proto-new wave ecc... insieme ad un originale assorbimento delle intuizioni del periodo precedente (un deforme incrocio tra Beatles, Cream, Kinks, Velvet Underground, Jimi Hendrix, Donovan e qualcosa di magico a noi sconosciuto).
Nasce così un album veramente seminale, che ha il suo scopo d’esistenza - in quanto non ancora compiuto in sé - proprio in questa sua funzione di input generazionale. Un giovane artista ci offre finalmente un nuovo punto di vista da cui guardare il mondo, lontano anni luce da quello dei figli dei fiori (che contribuirà a far appassire) e da quello dei figli d’Elvis. Una lente d’ingrandimento che ci introduce lucidamente in una nuova visione più introspettiva, dove regna (finalmente) ciò che è strano, ambiguo, bizzarro, alienante.
Un universo post-moderno che ci segnerà tutti e che inizia ad essere percorso in questi primi inesperti viaggi, seduti per terra sotto effetto di stupefacenti o sbandati tra le corse in macchina nella campagna inglese, la stessa che era stata da poco solcata dal Magical Mystery Bus dei Fab Four.
Bowie si appropria della collettiva voglia di libertà ed emancipazione della “Summer Of Love” per rigettarla sul singolo individuo, sulle sue antiche repressioni. Viene abbandonato così il senso del pudore, liberi ora di confessare, anzi gridare le nostre paranoie, i nostri feticismi, le nostre gioie più torbide. È qui che David Bowie delinea un solco, che lo divide da un passato a cui è comunque riconoscente, ma che non può sentire proprio. E nessuno resterà indifferente davanti a una copertina raffigurante il cantante vestito da donna (proto-N.Y.Dolls?) che accasciato su un letto si gioca a carte il destino del mondo. Lo stupore per un art-work senza precedenti non si spenge ovviamente al cospetto del disco in sé, avvolto da un suo suono potente, ben arricchito dai sintetizzatori di Ralph Mace e ottimamente prodotto da Tony Visconti con un'atmosfera da rock-opera quasi goticheggiante-fiabesca. I pezzi subiscono uno dopo l’altro gli affascinanti tormenti del leader, e la sua voce distorta, stridula, dolorosa e squillante risulta curiosa ed eccitata come mai più in futuro. La band dal canto suo sa forgiare ricami di melodie con rara maestria: ha la capacità di portarci in pochi minuti da toni grotteschi e sarcastici, così taglienti e veri da far intimorire i teneri hippie dell’epoca a quelli più intimi che quasi ci commuovono.
Ma qui non c’è solo abilità o professionalità, c’è un gruppo emozionato che sta scoprendo, sta portando alla luce la propria identità, di uomini e musicisti (saranno loro i futuri Spiders From Mars), e ogni componente sembra dare il suo contributo alla devastante riuscita emotiva dei brani.
Se permettete tralascio la descrizione dei singoli pezzi; perché questa è una di quelle opere che devono essere scartate da soli, scoprendo pian piano la bellezza della sorpresa, sorridendo nel trovare in alcun magnifici abbozzi l’embrione di uno dei vostri classici preferiti delle future fasi glam, plastic-soul o berlinese o altro ancora. Ma potreste anche innamorarvi a prima vista di una di queste gemme rinnegando un must che pensavate insuperabile di Bowie. Una cosa sola è certa: sia che ne rimaniate entusiasti o delusi, non esistono repliche di “The Man Who Sold The World”: è un disco che è stato imitato e aggiornato all’infinito ma mai ripetuto, mai ricreato nella sua perenne, insana freschezza. Qui un 23enne ha preso coscienza dei mezzi necessari per creare la sua vagheggiata, nuova musica: ora dovrà solo prenderne possesso.
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