Se c’è un unico grosso, macroscopico, neo nella carriera altrimenti abbastanza dignitosa di David Bowie, quello è il disco che parla di quell’alieno là. Il “concept" lo sapete già, anche io più o meno, ma davvero mi brucia la lingua a nominare ancora una volta la parola "concept" (giuro è l'ultima), quindi vediamo di arrivare in fretta al dunque, ché abbiamo tutti fretta. Già, perchè “Ziggy Stradust” ha di fatto inventato l’estetica, il suono e i tempi della moderna ballata rock, che equivale a rovesciare colonie e colonie di legionelle nell’acquedotto di una metropoli, così da infettare praticamente tutto il genere umano.
Sì, perchè questo album non ha fatto altro che legittimare la mediocrità, frullando in un mischiotto decerebrato i Beatles (totalmente fraintesi dal duca), i T-Rex e un'epica pseudo-teatrale talmente banale che solamente i Pink Floyd avrebbero avuto la sprovvedutezza di riprendere. E se il mondo della musica ha partorito tutto quell’hard-rock liofilizzato che va dagli Aerosmith ai Nickelback alla band di merda con la quale provi il venerdì sera, in fondo, la colpa è proprio di sto coso qui.
Suoni di plastica e vuoti (insomma delle taniche), riff che disegnano un bel stocazzo sul pentagramma, melodie tronfie di retorica da pelle d’oca auto-imposta. Di fatto questo è il suono delle strisce di cocaina, della megalomania, della vergogna di riscoprirsi incapaci di misurare il proprio ego. E la cosa più grave di sto album è che è anche abbastanza figo, in tutto e per tutto, sebbene le sue colpe siano davvero troppo grosse per proteggerlo da questa bella dose d’odio gratuito, e quindi mo' se la suca in pieno.
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