Qui! È da un “qui” che ha avuto inizio il concerto-evento, nella sofisticata cornice dell’Umbria Jazz 2018, di David Byrne, dopo i Massive Attack (16 Luglio) sicuramente l’artista più chiacchierato dell’edizione, rivolgendosi entrambi a un pubblico più ampio rispetto a quello degli amanti e cultori del jazz.

Here”, tratto dall’ultimo album dell’ex-Talking Heads, è stato scelto come brano di apertura, paradossalmente – e credo, al contempo, volutamente – perché chiude il disco: il concerto inizia là dove l’album finisce. Mr Byrne compare sul palco, dietro il sipario che si alza lentamente; si accendono le luci, prontamente proiettate su un 66enne, non ancora del tutto canuto, che, da seduto, canta tenendo in mano un cervello finto. Durante la canzone, alcuni dei suoi musicisti, entrano in scena, ma solo come presenze, senza ancora il loro strumento alla mano.
Here”, come “qui”, concettualmente non fa una piega, dal momento che l’artista, come seguito, recupera, retrocedendo di 15 anni, un brano nato dalla collaborazione con il duo di musica dance elettronica X-Press 2, che, se si prende letteralmente il titolo (“Lazy”), vuole essere una chiara dichiarazione, autobiografica, autoironica, di pigrizia. È con questo secondo breve episodio sonoro che fa il suo ingresso la band di musicisti di Byrne, ognuno con il proprio strumento alla mano (non c’è attrezzatura fissa – niente batteria, niente tastiere su un piedistallo –).

Il concerto inizia bene, un po’ tiepidino, ma è ok. Con il classicone dei Talking Heads, “I Zimbra”, qualcosa comincia seriamente a muoversi, in termini di coinvolgimento. E “Slippery People” (da “Speaking in Tongues” dell’83), sempre dei TH, rappresenta un ulteriore tassello della crescita dell’energia positiva che aleggia. Ancora tutti seduti, gli spettatori, compresi il sottoscritto, possono far poco, essendo relegati a una posizione pressoché statica: non si può davvero ballare, non ci si può scatenare. “I Should Watch TV” (firmata Byrne/St. Vincent), “Dog’s Mind” e “Everybody’s Coming to My House” conducono l’ascoltatore attraverso il panorama solistico di David, ma ancora ci vuole qualcosa che faccia davvero la differenza: un gesto, un invito esplicito, sonoro e non.

This Must Be the Place (Naive Melody)” fa da preludio al cambio di rotta, a quella che si può considerare la seconda parte del concerto, o, se si vuole, segna l’inizio del concerto vero, come avrebbe dovuto essere inteso in partenza. Dopo un tale capolavoro, non poteva non seguirne un altro – e ancora più eclatante! –: “Once in a Lifetime”. David non fa in tempo a finire la prima strofa che si interrompe bruscamente, in sincrono con la band, e urla qualcosa alla Sicurezza. Il sottoscritto rimane per un momento sconcertato, ma in pochi secondi capisce: il Nostro sta chiedendo, anzi ordinando, alla Sicurezza di permettere a noi pubblico di alzarci e andare sotto il palco a ballare e a cantare, insomma, a vivere il concerto come si deve. E dalla seconda fila è tutta un’altra cosa! … O meglio: il divertimento, il godimento, la fruizione sono più piacevoli, più forti.

Per ribadirci, alla sua maniera prettamente concettuale, che stiamo solo “facendo la cosa giusta”, l’ex-Talking Heads” intona “Doing the Right Thing”. Segue la cover di un pezzo di Fatboy Slim, “Toe Jam” e, subito dopo, è di nuovo delirio con “Born Under Punches (The Heat Goes On)” (da “Remain in Light”, 1980, album privilegiato da Mr Byrne – per molti versi, giustamente! –). Il momento semi-robotico arriva con “I Dance Like This”, in cui la vena autoironica dell’artista è nuovamente manifesta (“Ballo così, perché mi fa sentire così dannatamente bene; se sapessi ballare meglio, sai che lo farei”). Inizia romantico, quieto, elegiaco per tramutarsi, poi, in una danza industrial sotto forma di incubo elettronico.

La sinistra ed esotericaBullet”, preambolo al semi-gospelEvery Day Is a Miracle”, e “Like Humans Do” sono gli ultimi frammenti proposti, da una carriera solistica votata alla sperimentazione, tra pop e “avanguardia”. I Talking Heads si ripresentano alla porta: “Blind” tratta da “Naked” dell’88, e soprattutto la super-hit, la bomba ad orologeria, l’asso nella manica, “Burning Down the House”. A questo punto, il pubblico è tutto spinto verso l’alto, a saltare e ballare all’unisono, e chiunque sia stato precedentemente scettico (pazzo!) è ormai conscio della grandezza di quell’ometto di 66 anni che balla e canta in giro per il palco, in spontanea simbiosi con la band. È allegria collettiva, redenzione!

Il primo bis, chiamato a gran voce – e istericamente – è costituito da “Dancing Together” (Byrne/Fatboy Slim) e dalla travolgente “The Great Curve”, sempre da “Remain in Light”. Il secondo bis, altrettanto voluto, consta di una sola traccia: una cover di “Hell You Talmbout”, canzone di protesta, scritta da Janelle Monae, nella quale vengono citati diversi nomi di uomini e donne afroamericani uccisi per questioni razziali (tra cui il giovanissimo Emmett Till, cantato da Bob Dylan).

Un concerto a dir poco stupendo, perfetto, eseguito nella migliore maniera possibile, da un artista che sente davvero la musica che suona, le parole che dice, i movimenti che compie. Un artista vero, che sa trasmettere ancora, e insegnare! Una “testa che parla”, un nerd sentimentale (nel senso buono del termine), capace di dire cose serie in maniera leggera, e di dire cose leggere in maniera seria. Da vedere assolutamente, occasione permettendo (si spera che ritorni in Italia nei prossimi anni)!

Carico i commenti...  con calma