We need to talk about Mank.

Faccio una premessa: sono un estimatore di Fincher, ma spesso non condivido certi eccessi di entusiasmo nei confronti dei film del regista americano.

Fincher è, difatti, pur nell'ambito del mainstream, uno dei nomi più amati, spesso praticamente intoccabili, per via di indubbi meriti e dei molti grandi cult che ha realizzato.

Quando, ormai sette anni fa (...) uscì Gone Girl, mi ritrovai tra i pochissimi nell'esprimere dei dubbi verso quel film, di fronte ad orde di commentatori super eccitati; non di rado, ho sentito definire quel film il miglior di Fincher. Naturalmente, per me è lontanissimo dall'esserlo. E tuttora faccio fatica a considerarlo tra i lavori più riusciti del regista di film come Zodiac o Seven.

Penso che, in parte, anche con Mank non condividerò i giudizi ultra entusiastici che da diversi giorni si vedono. Ma andiamo con ordine.

Mank è per me un ottimo film, un film dai molteplici aspetti positivi e da analizzare. Ma non me la sento di unirmi ai molti che lo stanno celebrando come il film di questa annata (che, specifico, per me è e resta quello, sempre Netflix, di Kaufman).

C'è da dire, è un film sfaccettato ed ambizioso, il più ambizioso di Fincher sicuramente; di grande spessore dal punto di vista tecnico e senz'altro con diversi piani tematici - e psicologici - di lettura. Oltre che svolto su più piani temporali.

Prima di tutto, quello più evidente fin dai titoli di coda: è un omaggio ed atto di amore verso il cinema. Ma, col passare del tempo, questo atto d'amore si rivela, al tempo stesso, estremamente critico e disincantato. Il mondo di quella Hollywood, e di quella società americana, non è certo dipinto con tratti di elogio e nostalgia, anzi. A risaltare sono i lati più oscuri di quella Hollywood, di quella macchina dei sogni che diventa macchina di propaganda, scenario in cui meschinità e piccole/grandi miserie morali - ma soprattutto politiche e di sistema - sono ordinarie. A tal proposito, anche se, appunto, estremamente funzionale, ed addirittura centrale, il carattere politico del film appesantisce molto il tono dell'opera, a mio parere. Rendendo difficoltosi diversi passaggi.

Il film, essendo stato girato in epoca Trump, chiaramente sconta questo aspetto e, quindi, questo parallelo con certe tendenze reazionarie e "socialismofobiche" che ciclicamente ritornano nella società americana, non è banale, ma senza dubbio abbastanza scontato e prevedibile.

Ben più interessante e di grande rilievo è, invece, il parallelo tra quel mondo e quello odierno riguardo, nello specifico, all'attuale grande crisi economica e del cinema. Con la riflessione sul come preservare il mondo dell'intrattenimento ai tempi della grande depressione, ed oggi chiaramente viviamo una crisi ancora più profonda e buia. Già in atto da prima della pandemia nel mondo del cinema.

La maestria di Fincher non è mai in discussione. Ed emerge spesso, per culminare in uno straordinario finale a montaggio alternato molto significativo e, per certi aspetti, rivelatorio. Ma finita la visione qualcosa mi trattiene dal considerarlo un grandissimo film. Sarà che, sostanzialmente, di nuovo non dice nulla sul mondo di Hollywood, sui suoi meccanismi produttivi, sul cinismo dei suoi deus ex machina e sull'America. E sulla scrittura.

Sarà che, in molti momenti, dà quella impressione di un film formalmente fin troppo perfetto e studiato a tavolino (con relativi vezzi autoriali, bruciature, rimani estetici al cinema dell'epoca) per emozionare davvero. Sarà che la figura di Welles (il film, ricordiamo, parla della figura dello sceneggiatore di Quarto Potere) è praticamente ridotta a una macchietta e viene fin troppo criticata e sminuita (sensazione accentuata e legittimata dal tono quasi beffardo con cui, nel finale, viene ricordato come l'unico Oscar assegnato al capolavoro dei capolavori fu quello alla sceneggiatura, sceneggiatura che, viene sottolineato, fu scritta dal solo Mankiewicz senza, pertanto, dare peso alle relative modifiche del giovane ragazzo prodigio). E se è giusto tributare il lavoro di una figura così spesso in ombra, autodistruttiva, contraddittoria, complessa e fragile, non c'era davvero il bisogno di rendere Welles così piccolo e bidimensionale al suo confronto. Mai restituita nella sua grandissima genialità e complessità, ma solo negli aspetti spigolosi ed egocentrici del carattere di uno dei più grandi artisti del Novecento. Per il quale Fincher non prova simpatia, però.

I momenti che ho preferito in assoluto sono stati quelli tra Oldman e la Seyfried (stupenda), i momenti che ho trovato più poetici e toccanti.

Fincher resta un grande regista (non uno tra i più grandi autori, però) ed un fine studioso della società americana, del passato e del presente (che non sono che un tutt'uno), dei suoi aspetti controversi e malati. Zodiac e The Social Network sono lì a dimostrarlo. Ma, ovviamente, anche Seven e Fight Club. E Mank ne è un'ulteriore dimostrazione, un film bello ed importante, ma che a mio parere non raggiunge i livelli di eccellenza dei suoi lavori migliori.

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