"Questa storia non avrà un lieto fine", dice il disilluso Somerset (uno splendido Morgan Freeman, nel ruolo di un tenente della polizia prossimo alla pensione) all'irruento collega Mills (Brad Pitt) a proposito della catena di omicidi su cui i due stanno indagando. E così sarà.
Con "Seven", il regista David Fincher si inserisce con grande talento visivo nel filone delle pellicole sui serial killer, dando prova di un pessimismo inusuale nel cinema americano contemporaneo. Grazie alla straordianria fotografia di Darius Khondji, che esaspera i neri grazie a particolari procedimenti chimici, Fincher crea un'atmosfera spesso assai cupa. Gli interni sono poco illuminati, gli esterni ci mostrano una città senza nome sommersa dai rifiuti e battuta da una pioggia incessante: un panorama da incubo che sembra uscito da un romanzo di James Ellroy. Ma Fincher e lo sceneggiatore Andrew Kevin Walker evitano di restare intrappolati nei clichè del genere. I delitti avvengono fuori campo, allo spettatore sono mostrati i luoghi del crimine, i corpi martoriati, mai le modalità di esecuzione: l'orrore è ineluttabile, possiamo solo subirne le conseguenze.
E se la coppia di protagonisti (il poliziotto vecchio e quello giovane, il maestro di vita e l'allievo) rimanda alla tradizione hollywoodiana, il disegno dei personaggi riserva delle sorprese. Inoltre, in epoca di thriller incentrati sui più moderni ritrovati tecnologici, in "Seven" le indagini si svolgono in biblioteca, tra polverosi tomi medievali. Ed è dai testi di Dante e Chaucer che emerge l'allucinante progetto di uno dei più terrificanti serial killer apparsi sullo schermo: un uomo senza nome e senza impronte digitali, che ha pianificato per anni i suoi deliti, riempendo con deliranti sermoni migliaia di pagine dei suoi diari, come ci mostra la sequenza dei titoli di testa. Si fa chiamare John Doe (negli USA tale nome è sinonimo di uomo qualunque, l'equivalente del nostro "signor Rossi"), come l'eroe di un vecchio film di Frank Capra, simbolo di un'America innocente e pura, ormai scomparsa per sempre. La missione di John Doe diventa chiara solo nella sequenza finale, quando l'azione si sposta in una smisurata distesa desertica. Proprio l'agghiacciante conclusione dona al film un senso morale che costringe lo spettatore a schierarsi e a porsi molti interrogativi anche dopo i titoli di coda: è anche per questo che "Seven" è uno dei grandi thriller degli anni '90.
"Ernest Hemingway una volta ha scritto: 'Il mondo è un bel posto, e vale la pena lottare per esso'. Condivido la seconda parte."
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