Spesso ci soffermiamo sulle pagine di cronaca nera dei giornali, soprattutto quando in esse si parla di delitti, di fatti di sangue, di misteri. I libri "gialli", per quanto tradizionalmente catalogati come "paraletteratura", sono i più venduti nelle librerie e nelle edicole italiane, talvolta a prescindere dalle qualità degli autori, talora premiando i vari Camilleri e Carofiglio, per citare due fra i più noti emuli italici di Simenon.

Fra le trasmissioni televisive giustamente più note dell'ultimo ventennio, spiccano "Telefono Giallo" di Corrado Augias e "Mistero in Blu" (e poi "Blu Notte") di Carlo Lucarelli, ambedue dedicate ai grandi delitti irrisolti della (micro)storia italiana, dal caso Alinovi, alla strage di via Caravaggio, passando per le vicende del mostro di Firenze. Bruno Vespa ed Enrico Mentana battagliano non solo sul caso di via Poma, premiati da indici di ascolto che non si registrano quando di dibatte di economia e politica, ma anche e soprattutto sulle vicende di Cogne, sempre alla ricerca dell'inedito, del non detto, o della famigerata prova madre che renderebbe chiaro il quadro del reale, offuscato da troppe incongruenze.

Non attrae solamente il mistero in sé (il delitto "irrisolto"), ma piace, soprattutto, cercare il mistero dove esso non c'è, cercando sempre di ridiscutere i risultati acquisiti nelle investigazioni, nei processi (il delitto "risolto"), mediante il ricorso a quella tecnica, o arte che dir si voglia, che spicca specialmente alle nostre latitudini, sotto il nome di "dietrologia". Così, l'innocentismo che caratterizza tante campagne stampa o d'opinione non è mosso tanto dall'esigenza di tutelare la persona (a torto o a ragione) indagata o accusata del fatto di sangue, quanto dall'esigenza - spesso inconfessata - di mettere in discussione l'esistente, di dare il via a nuove indagini, alla nuova eccitante scoperta di una verità alternativa, o di un doppio ed ulteriore livello di verità, in una sorta di regressio ad infinitum.

In questa ottica, l'investigare, e principalmente l'interessarsi di investigazioni compiute da professionisti, sembra quasi un meccanismo compensativo delle deficienze dell'individuo, del suo disagio esistenziale, quasi la voglia di portare ordine in un mondo complicato, irrazionale, dove tutto sfugge, la voglia di ricomporre il molteplice ad unità: si tratta, kantianamente, di un compito eterno, e quasi come Penelope l'investigatore dilettante, nel cercare di risolvere il mistero, ne sposta sempre in avanti l'effettiva soluzione, beneficiando dell'eccitazione e dello stimolo che deriva dall'essere sempre alla costante ricerca della verità.

Tutta questa introduzione, anche se lunga, non deve sembrare vana al lettore di questa recensione, proprio perché "Zodiac", capolavoro di David Fincher, parla in ultima analisi di questi problemi, della eterna ricerca della verità, del rapporto che si crea fra investigatore professionista/dilettante/spettatore ed il mistero, e di come esso sconvolga, ma anche stimoli, le nostre esistenze.

La trama, tratta da fatti realmente accaduti, dovrebbe essere nota ai più, ma può essere sinteticamente riassunta come segue: nella San Francisco di fine anni '60 un serial killer, ribattezzatosi "Zodiac", colpisce le sue vittime a caso (soprattutto fra coppiette appartate), innescando le indagini della polizia locale, e le speculazioni della stampa, oltre che le indagini private di un vignettista/enigmista, attratto dai messaggi cifrati che lo stesso killer fa pervenire a giornali e polizia. Dopo anni di indagini la verità, anche se possibile, non sarà mai probabile con certezza assoluta.

"Zodiac" non è il solito film sui serial killer (come invece il vecchio "Seven" dello stesso regista) ma un lavoro che, come già osservato dai più, indaga più sull'impatto delle gesta dell'assassino sulla vita degli investigatori, professionisti o dilettanti, esplorando la maniera in cui esse sono modificate dall'intervento del mistero nella loro vita quotidiana.
Più in profondità, esso mette in luce la sostanziale inconoscibilità del reale, senza arrivare ad una sua fittizia ricomposizione finale come avviene nei gialli classici, o in tanto cinema di genere (sebbene un tentativo implicito venga effettuato anche in questo film - ma non anticipo troppo).

La Verità è inconosicibile, infatti, sia da parte di chi la cerca mediante un approccio induttivo, empirico, basato sulla evidenza dei fatti di ascendenza galileiana (la polizia), sull'intuizione (il giornalista), sulla logica pura e sulla connessione oggettiva dei fenomeni (il vignettista/enigmista), e la luce del vero cede il passo alle tenebre del mistero e del non detto, come del resto simboleggiato dalla bella locandina di Zodiac: la luce illumina solo la scena del delitto, l'autore resta invece nell'ombra.

L'investigatore di professione è il primo a cedere, a disilludersi, a fronte della complessità delle indagini e della difficoltà nel reperire le prove idonee a costruire una sufficiente accusa (a differenza del Callahan che risolve il tutto con un colpo di pistola allo Skorpio che a Zodiac si ispira); il giornalista è il secondo a cedere, proprio perchè anch'egli, come professionista, pur non vincolato al rispetto delle procedure di indagine della polizia, si trova ad essere oggetto di stimoli continui, non riuscendo più a discernere reale da immaginario, prova effettiva da mera speculazione. Resta in campo il vignettista, certamente più caparbio, e ciò proprio perchè scarsamente coinvolto nei fatti, di cui ha scienza indiretta, perchè uso a trattare le singole vicende come oggetto di svago intellettuale, ma anch'egli vittima della ragnatela delle proprie elucubrazioni, e privo dei mezzi per provare ciò che - probabilmente - ha intuito.

Sotto il profilo prettamente tecnico, Zodiac risulta, a mio parere, uno dei thriller più interessanti dell'ultimo decennio: eccellente la scelta del trio di attori protagonisti, sui quali spicca un Mark Ruffalo estremamente credibile nel suo ruolo, senza trascurare le buone prove di Robert Downey Jr e Jake Gyllenhaal, oltre che di tutti i caratteristi impegnati nel film; suggestiva la scelta delle locations, in una San Francisco di periferia; realistica la fotografia degli esterni, ed interessante la scelta di utilizzare dei filtri che donano una patina quasi vintage alle scene girate in interno, quasi a trasformare il film in un documentario di fatti avvenuti quasi quarant'anni fa, con la pellicola usurata dal tempo.

Pur patendo qualche lentezza nella parte centrale, dovuta alla estrema fedeltà della ricostruzione delle indagini, il film stimola lo spettatore e non presenta autentici cali di tensione: agghiaccianti, in particolare, le scene delle aggressioni del killer, girate quasi esclusivamente nella soggettiva delle vittime e senza inutili spargimenti di sangue (all'opposto di quando accade nei film di Argento, per intenderci). Il terrore non viene imposto dal dettaglio truculento, ma dal volto dei malcapitati, con un effetto angosciante mai provato da anni (dai tempi de "La casa..." di Avati, a dire il vero), soprattutto nella scena del delitto in pieno sole, al parco, vicino al lago.

In sintesi, un film da vedere.

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