Che Mulholland Drive sia un capolavoro l'hanno detto in molti, eppure davanti a tanta bellezza non riesco a trattenermi dall'esprimere il medesimo parere. Non c'è motivo d'altronde per cui ci si dovrebbe stancare di sostenere la grandiosità di opere come la Commedia dantesca o la Cappella Sistina. E non mi sembra di esagerare nel ritenere MD non solo l'apice della filmografia lynchiana ma anche uno dei film più belli degli ultimi vent'anni, una vera pietra miliare del nuovo millennio. Qui davvero non ci sono obiezioni che tengano: chi non apprezza un film del genere non è perché non lo ha capito, ma perché non lo ha sentito. Non mi dilungo su quanto coerente in realtà risulti una trama a prima vista incomprensibile quando la si vada ad analizzare a fondo e con le adeguate chiavi di lettura psicoanalitiche (anzi, rispetto a film come Eraserhead, Strade Perdute o Inland Empire, MD è comprensibilissimo), perché ciò che davvero conta, qui come ovunque in Lynch, è altro: è la meraviglia di addentrarsi nel territorio ammaliante e spaventoso del sogno e dell’incubo, le cui oscure dinamiche Lynch come nessun altro riesce a tradurre in immagini di uno splendore abbacinante. E si badi che non è tutto stile (il che per quanto mi riguarda basterebbe e avanzerebbe!), perché non c’è singolo fotogramma la cui accurata preparazione non sia stata studiata per esaltare la drammaticità di una vicenda umana narrata con rara profondità. Anzi, nel complesso mi sembra che si possa persino estrapolare una visione sconsolata dell’esistenza e del mondo intero, in cui solo il rifugio nel sogno può ripagare da una realtà che non fa che confermarsi sempre più squallida e dolorosa. Ma mille altri spunti di riflessione si potrebbero trovare in questo labirinto, dal discorso metacinematografico a quello sul rapporto tra realtà e finzione, dal tema del doppio interscambiabile all’interpretazione psicoanalitica degli innumerevoli simboli onirici di cui vive l’intero film. Forse però è più proficuo limitarsi a farsi investire dalla bellezza di una sequenza ininterrotta di momenti da sindrome di Stendhal, la cui densità di significato non fa che accrescere il godimento estetico: insomma, dalla strepitosa scena iniziale del ballo alle ultime sillabe sussurrate a suggellare una vicenda di speranze infrante con laconica malinconia, MD è un continuo superarsi che rasenta la perfezione (ah il Club Silencio!). Con David Lynch si vola sempre alto, ma a mio parere Mulholland Drive rappresenta davvero il vertice, ancor più che quella mastodontica summa del suo cinema che è Inland Empire, splendida creatura inestricabile e metamorfica, puro onirismo antinarrativo in cui però lo stile finisce forse col prevalere sulla sostanza. MD riesce invece a toccare miracolosamente il perfetto equilibrio tra l’ancoramento a una solida narratività (ancorché metaforica per i primi tre quarti, con un coup de théâtre che di più non si può) e il meraviglioso surrealismo del linguaggio. E il risultato è un film che riesce ad essere enigmatico e nel contempo tragico ed emozionante, sensuale e allo stesso tempo inquietante, un film di una tale bellezza da suscitare le lacrime.
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