Al giorno d'oggi come mai prima, gli horror vanno molto di moda. Il pubblico va alla ricerca di emozioni forti, cerca un modo per mettere alla prova sé stesso, vuole vedere se "ha fegato". Ogni film dell'orrore in uscita vuole andare oltre il precedente (ricordo quando venne annunciata la rivoluzione "The Grudge", a cui sono seguiti tutti i "Più terrificante di The Grudge"...). Lo spettatore medio cerca sangue, vuole vedere le viscere degli uomini uscire dal loro corpo, vuole un terrore il più reale possibile.

Ma allora, perché in così tanti non hanno il coraggio di affrontare "The Elephant Man"? Perché molti di coloro che lo hanno fatto, vanno per le strade a decantare l'angoscia di quest'opera, e l'assoluta inaffrontabilità? Ve lo dico io il perché. Perché non c'è nulla di più terrificante della cruda realtà.

La storia di John Merrick è davvero unica nel suo genere: nato con gravissimi deformazioni del cranio e della spina dorsale, a causa di un'altrettanto rara malattia. Egli fu vittima di molte vicende, tra cui anche l'esibizione in un baraccone da circo, dove venne spacciato per il figlio di una donna schiacciata da un grosso elefante. Il suo padrone lo maltrattò, finché il chirurgo Frederick Treves lo prese per esaminarlo, e destinarlo ad una stanza d'ospedale.

Lynch ha accettato anche questa sfida. Dopo l'accurata lavorazione di una maschera di plastica, la sua troupe ha dato vita ad una copia molto somigliante del soggetto in questione, la cui parte venne poi affidata a John Hurt, la cui recitazione è degna di nota. La parte del chirurgo è affidata ad Anthony Hopkins, adattissimo al ruolo. Egli si cala perfettamente nei panni di Treves, e lo si capisce dalla scena in cui viene inquadrato il viso stupefatto alla prima vista di Merrick (il modo in cui gli scendono le lacrime è più reale della realtà stessa). Inoltre egli ha il difficile compito di impersonificare l'unica persona che voglia davvero bene a John, dimostrandosi quasi un padre per lui. E ci riesce appieno.

Ma sicuramente, oltre alla vicenda, la cosa più stupefacente del film è la regia. Ogni minima scelta che Lynch ha sapientemente effettuato contribuisce a rendere "The Elephant Man" un vero capolavoro. A cominciare dalla scelta del nitidissimo "bianco e nero", più che mai azzeccata per questo dramma; ho ammirato molto il modo di passare da una scena all'altra, con dei "fading out" sul nero, e la riapertura allo stesso modo sulla scena successiva; un'altra scelta geniale è stato il modo di approcciarsi lentamente alla figura di John Merrick, dapprima mostrando solo un'indistinta ombra, e piano piano mettendolo sempre più in luce, fino ad arrivare al punto in cui vedere il protagonista alla luce è più che normale; le musiche sono quasi assenti, se non in alcune scene chiave, dove è necessaria una colonna sonora (per esempio, l'assalto dei curiosi paganti alla camera di John, dove la drammaticità raggiunge un livello altissimo). Una scena su due ha un forte impatto sull'animo dello spettatore, ogni dolce dettaglio ti avvicina sempre di più alla commozione, fino ad arrivare alle ultime due scene: il momento in cui il teatro applaude Merrick è toccante a dir poco, ma nella scena in cui decide di morire, dormendo come una persona qualunque (difatti era impossibilitato a stare supino, pena il soffocamento), è impossibile trattenere le lacrime. Io, anche alla seconda visione, non ce l'ho fatta. Chiunque non provi queste emozioni davanti al finale, non è umano.

"La gente ha paura di ciò che non riesce a capire": forse questa frase, pronunciata dal protagonista, potrebbe riassumere l'intera opera, che ha come obiettivo invertire i ruoli, affermare che il vero animale è colui che non riesce a trovare in Merrick un uomo sensibile e molto coraggioso. Il suo grido straziante alla stazione è davvero indimenticabile: "Non sono un animale, sono un essere umano!".

"The Elephant Man" è la storia di un uomo afflitto da molto dolore, ma che con l'aiuto di Treves è morto in pace; egli infatti disse al chirurgo che ogni minuto della sua vita era felice, perché sapeva di essere amato. Con la morte egli si è ricongiunto al ricordo della defunta (e bellissima) madre, i cui occhi aprono e chiudono il lungometraggio. Rigorosamente imperdibile, necessario per dimenticarsi per un attimo di sé stessi e riflettere un po' anche su chi soffre davvero.

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