Qualche nuovo album si accumula nel mio scaffale: Springsteen, System of a down, i Van Der Graaf Generator... a parte gli armeni si direbbe che io stia invecchiando precocemente, ma non è così. Vivo invece da ingenuo smaccato dal disinteresse generale per la musica e i vettori, provo un senso di repulsione appena qualcuno dimentica una copia pirata o un master dell'ultimo artista pop di grido, senza la custodia, tanto potrebbe giocarci al tiro al piattello con il formato sonico di oggi, vero? Non è questione di Nostalgia o non solo.
Sono giorni che scorre nel lettore un disco che ha segnato la mia vita, in pieno delirio Duraniano, quando certe controprove del vuoto successivo scatenavano almeno il ludico piacere di sentirsi ehm alternativi. Ritrovo questa copertina, l'uomo che dignitosamente ascolta il fruscio degli alberi, e mima con la sua musica la possibilità che il mondo - dopo i riverberi new wave - si fermi placidamente ad ascoltare. E dire che viene dall'esperienza un po' estetizzante dei Japan, dei quali il sottoscritto non ha mai delirato...
Gli antichi fantasmi del passato si confondono con la serenità di "Pulling punches", ed è quasi irritante - con la sua frenata energia, ma pur bella - rispetto a tutto il resto. Una delicatissima "The Ink In The Well" mi conduce nell'Eden che l'Occidente non è più riuscito a trovare: pennellate, come quelle di Picasso, forme astratte che alla fine riportano l'uomo soltanto alla traccia primordiale della sua conoscenza. In fondo è tutto relativamente semplice, per quanto sembri lontano da tutto ciò che noi vediamo. Sublime decadenza, non smacco, come "Weathered Wall", dove le tenebre della notte portano l'uomo alla fine della contemplazione e alla purezza di pensiero. "Brilliant Trees" io lo trovo ancora serafico e sereno, abbacinante come i raggi di sole che filtrano dagli alberi nel tardo pomeriggio, prima del tramonto, e Sylvian è lì, quasi un'eremo mantrico, mentre ci invita a raggiungere questa dimensione.
"Nostalgia" è una di quelle canzoni che sembrano durare in eterno, riverbero infinito di un'emozione indivisibile, struggente e finanche "dolorosa" quando la melodia arricchita dal pianoforte di Steve Nye sembra prenderti per mano e invaderti la mente: in realtà è un'energia positiva, non certo quella stancamente accademica della new age, che produce questo effetto mai saturo: l'ascolteresti di continuo e lasci che ti porti via, lontano. Da qui. una spiaggia del Veneto è ben diversa da un esilio giapponese, nonostante la presenza degli ex-Japan Barbieri e Jansen, o Sakamoto - a un anno dalla splendida "Forbidden Colours" sempre con Sylvian, Mark Isham e l'onnipresente Czukay, ma è come se mi sentissi in diversi posti nello stesso tempo. Pura comunicazione, per cui mi sfugge ancor di più l'ermetismo snobistico del suo recente "Blemish".
E la conclusiva title-track è un'epilogo di una ricchezza sorprendente, quasi austera ma mai biecamente contemplativa.
Ho ancora nel cuore quest'album, che mi illuminò nei miei 16 anni una stagione di molti anni fa - 1984 appunto - a dispetto di quegli amici che ostentavano un'emotività forse già coinvolta dal magma del presente, e che infatti predilivano la sola "Pulling punches" come viatico più o meno orecchiabile della loro misura.
Mi ci rispecchio ancora: e a distanza di oltre vent'anni, penso che dall'estetica decadente dei Japan è nato e risorto soprattutto uno spirito libero
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