In un’epoca in cui la provincia di Como è nota principalmente per personaggi bizzarri da Grande Fratello o, peggio, per i mostri da vicinato, mentre il mercato della seta sta morendo ed i Giorg Clunei scorrazzano per le sue strade, Davide Van De Sfroos rappresenta (da quasi 20 anni) una ventata di aria fresca, il riscatto artistico di una provincia splendida e selvaggia. “Ciamel amuur; o ciàmel nagott”, ci dice lui: chiamatelo amore, o non chiamatelo per niente.
Quel dialetto che, tra il Ceresio ed il Lario, si distacca dal milanese prima e dal comasco poi, assorbendo molte sonorità del vicino Ticino, nella penna del Davide assume la dignità e la valenza artistica di una vera e propria lingua; la letteratura di questa lingua – che è soprattutto la sua letteratura –, la sua ossatura poetica, dalle vicende da bar degli esordi, negli anni si è arricchita di racconti di emigranti, di leggende misteriose ed oscure (nell’ottimo “Akuaduulza”, per me suo capolavoro) e di storie di riscatti sociali (si ascolti ad esempio la stupenda “40 pass”, dall’album “Pica!”).
“Varda che loena stasira: l’è cürva che paar un seghezz1; a chi che ghe diis che l’estaa l’è finida che tajumm la lengua de mèzz!”
Anticipato a Sanremo dall’efficace brano omonimo, tanto orecchiabile quanto malinconico, in fondo autobiografico e peraltro sorretto da un’idea di fondo molto originale, qualche giorno fa è uscito “Yanez”, il suo sesto album da solista, che prende il nome dal celebre personaggio salgariano. Si tratta di un album molto meno immediato di altri lavori del cantautore monzese (e tramezzino di adozione); ciò che però, fin dal primo ascolto salta all’orecchio, è l’eccezionale qualità delle liriche; le parole della canzoni, come pennellate di un pittore, racchiudono, del resto, emozioni ed esperienze di una vita intera.
“Perché ‘l teemp l’è un cunili che scapa, ma l’è anca ‘l can che ghe curr adree.”
Il Van De Sfroos, che è anche scrittore, possiede una padronanza pressoché totale del dialetto e sa rendere in maniera impressionistica sensazioni, umori, odori, azioni e pensieri delle persone che popolano le vicende che racconta, e sa ulteriormente racchiuderle in un guscio di commovente e disarmante realtà, che le vicende si svolgano sulle rive del laagh (“Setembra”), lungo l’autostrada a Casalpusterlengo (“Il camionista ghost rider”) o nelle gelide piane russe martoriate dalla guerra (“Il reduce”).
“E se vardi sto guantu de pell, cun suta un pügn de legn, se dumandi se la man che ho perdüü l’è dree amò a sparà. […] La tua cruus la g’ha sempru tri cioo2, e la mia uviameent voen in menu, ma son qui con la stessa preghiera, come ogni sera: te la scrivo col sangue non speso e una penna nera”.
Proprio la malinconia pare essere il tema dominante del lavoro, come già par evidente dalla prima canzone (“El carnevaal de Schignan”): il carnevale – e quello di Schignano è il più celebre del comasco – è emblematico di questo stato d’animo. “Nissoena maschera cambia facia, anca se suta gh’è un omm che piaang.”, racconta. Non vi sono messaggi di speranza, insomma, non vi sono morali o insegnamenti; solo vita vissuta, e raccontata con la voce della gente.
“Ho giügaa i me caart, tra i piant de rusmarén e la rüdeera, cui pügnatoni nel ventru dela sira; in pée, ma cun l'umbrìa sempru in genoecc.
Se da un punto di vista compositivo l’album è, come detto, splendido, si potrebbe, al limite, sottolineare una struttura musicale non più originalissima, che ormai risente di quanto il Davide ha già musicato in passato; ascolto, tuttavia, la fisarmonica di Davide Brambilla ed il violino di Angapiemage Persico che, come fili di seta, tramano i loro tessuti sempre preziosi e, con un po’ di magone, ripenso all’uduu del laagh, al fischio del vento, allo strabordio delle sue onde. Ripenso a casa.
“Se te podet, fermess che, che in dué tira ‘l veent; i niguj g’hann poca memoria, ma l’erba resta in dué l’è.
Il Davide… quello che è, e quello che rappresenta, l’avete visto; e avete capito chi è, nonostante le domande idiote dei critici che, di fronte al suo immenso bagaglio culturale ed alle tradizioni delle mie terre che si porta dietro, non hanno avuto idee migliori del rinfacciarli i soliti falsi e scontati luoghi comuni.
“E te séet menga se l’è culpa del cioo, o del martell che l’ha picàa; e la matena la g’ha l’oor in buca, però i diamanti i a scundüü in del cüü.”
Alla mia terra che, non puoi farci nulla, ti manca.
1 Guarda che luna stasera: è curva che sembra un seghetto.
2 La tua croce ha sempre tre chiodi.
3 Ho giocato le mie carte, tra le piante di rosmarino e la spazzatura, coi pugni nello stomaco della sera; in piedi, ma con l'ombra sempre in ginocchio.
4 Se puoi, fermati qua dove tira il vento; le nuvole hanno poca memoria, ma l’erba resta dov’è.
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