Si parla troppo poco di Dax Riggs. E la sua infatti è la storia di un artista da sempre terribilmente trascurato. Nonostante sia una carriera iniziata piuttosto precocemente, a soli 16 anni, e in un gruppo che ancora oggi viene ricordato dagli appassionati del metal: gli Acid Bath.
Ecco, ora che ci penso su DeBaser credo di essere stato l’unico a parlarne, e pure senza le dovute informazioni di cronaca. A volte ti lasci prendere da un disco e lo racconti a modo tuo, tralasciando alcuni aspetti che possono interessare invece i professorini del sito. E allora, con buona pace degli illustri prosatori, cerchiamo di porvi rimedio.
Eravamo rimasti agli Acid Bath. Già con i successivi e ottimi progetti, gli Agents of Oblivion e i Deadboy & the Elephantmen, Dax dimostra di aver superato le crisi brufolose del metal e di ricercare qualcosa di diverso rispetto alla furia del passato, in una forma altrettanto oscura e selvaggia, e comunque sempre bagnata dalla risacca del gruppo di origine. In particolare mi sento di consigliare il lavoro con gli Agenti dell’Oblio, autori di un rock paludoso che a tratti abbraccia lo stoner e in altri richiama i suoni del grunge dei tempi d’oro.
Nel 2007 arriva finalmente il momento per l’avventura solista e quello che ne esce fuori è l’ottimo We Sing of Only Blood or Love, disco prodotto da Matt Sweeney (Johnny Cash, Bonnie Prince), che vede quest’ultimo anche alla chitarra, oltre alla presenza degli ex compagni di avventura nei Deadboy.
Dax Riggs estrae il cuore nero della notte con il suo rock abrasivo e crepuscolare, declinato in quindici oscure litanie affogate nei riverberi, che lambiscono i territori del blues, del folk e più moderatamente del punk. Come se Nick Cave incontrasse Ziggy Stardust lungo le rive del Mississippi.
E' però la voce la vera protagonista del disco, potente e straziante come il doloroso guaito di un animale ferito. Una voce che a parere del sottoscritto è tra le più versatili e personali dell'intero panorama rock.
Le canzoni si susseguono rapide tra ballate ossessionanti ("Night Is the Notion") e blues più canonici ("Dog Headed Whore" o “Didn't Know Yet What I'd Know When I Was Bleeding”), suoni ed umori che fanno da colonna sonora a morbose storie di amore e di sangue. Non mancano pezzi più veloci e dal piglio garage come le ritmate "Forgot I Was Alive" e "Radiation Blues”, e nemmeno brani che alternano le due facce della medaglia ("Ghost Movement") o quelli in bilico sull'orlo del precipizio (“A Spinning Song”).
Certo non si tratta di un disco senza sbavature, forse per il fatto che c'è molta carne al fuoco e alcune ottime idee non vengono sviluppate appieno. Ma a mio avviso la qualità media rimane comunque alta, nonostante qualche filler, e Riggs dimostra di possedere una spiccata personalità e di non aver paura di osare.
La carriera del nostro segna purtroppo il passo nel 2010 con il successivo e altrettanto valido “Say Goodnight to the World”. Non sono a conoscenza di progetti in corso d'opera, anche se spero che qualcuno arrivi a smentirmi, perchè sarebbe davvero un peccato perdere un artista di questo calibro in tempi così avari di musica di un certo livello.
Buona notte mondo.
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