Uno dei gruppi più spaventosi e violenti dei '90; i sottovalutatissimi Dazzling Killmen pubblicano nel 1994 il loro piccolo capolavoro, "Face of Collapse". Una miscela esplosiva di noise e math; tonnellate di lava incandescente portate all'orecchio del povero ascoltatore, con un'intensità, una ferocia, una cattiveria devastante, che avrà pochi eguali nel corso di tutto il decennio.Nick Sakes, Darin Gray e Blake Fleming (si, proprio il primo batterista dei The Mars Volta) sono gli artefici di tale cataclisma. Semplicemente un terremoto tradotto in musica, dalla quale siamo trasportati e travolti, senza poterci ribellare, incapaci di reagire. Possiamo solo augurarci che tutto ciò finisca presto, e sperare di scampare al pericolo.
L'iniziale "Staring Contest" sembra quasi irridente, con la sua finta partenza, accennata più e più volte, che devasta quando meno ci si aspetta. Scosse telluriche di inaudite proporzioni, un muro di chitarre impenetrabile, e le urla sgolate di Sakes, a metà tra Yow e Albini, disegnano uno scenario apocalittico, un'apocalisse che è già in terra, e dalla quale non possiamo sottrarci. Le partiture complesse e sofisticate, e i ripetuti cambi di tempo sono l'aspetto che più li differenzia da band quali Unsane e Jesus Lizard, e anzichè graffiare, le chitarre preferiscono intontire, risultando affini a certe sonorità proprie degli Helmet. "Bone Fragments" è la traccia che mette in mostra l'abilità del complesso, la camaleontica capacità di variare un diverso numero di strutture all'interno dello stesso pezzo. Accellerazioni debordanti, pause, ammalianti linee di basso, quasi funk, si alternano per cinque minuti abbondanti, sovraccaricando le nostre tensioni, le nostre nevrosi, preparando il terreno alla definitiva esplosione della nostra martoriata psiche. "My Lacerations" è come stare un minuto e mezzo in apnea; invece che l'acqua devi combattere il frastuono. "Blown (Face Down)" è quasi erudita, come avercela col mondo e riderci sopra, piuttosto che sputarci contro la propria collera, la propria rabbia. Ma è solo un'eccezione, anzi, sembra quasi che voglia far credere che la tempesta sia passata. Miei cari, non è così. "Windshear" aiuta a rifiatare, prima del micidiale trittico finale. "Painless One" alza la tensione, e ritrova il motivo conduttore che si era andato perdendo; a la title-track, che si snoda attraverso tredici strazianti minuti di cacofonia assordante, il compito di maciullarci per benino. Il colpo di grazia lo dà "Agitator", con un'epica cavalcata dagli accenni quasi prog.
Molti gruppi estremi di oggi, devono molto successo a questi tizi del Missouri. Ma mai nessuno di loro ha anche lontanamente riportato alla mente i detriti sonici di "Face of Collapse". Un piccolo fiore andato estinguendosi che ho cercato umilmente di riportare alla luce. Stavolta il terremoto è passato sul serio, ma è come se ne fossi ancora investito.
Carico i commenti... con calma