Un'urgenza particolare accomuna alcune tra le più commoventi pagine della storia della musica: molte fra esse sono parto naturale di un'ansia di liberazione che l'artista traduce volentieri - con ausilio più o meno calcato della metafora - in sogno di fuga. Fuga da se stessi, dall'altro, dall'insostenibilità di un sentimento; fuga da tutto ciò che - ostile a ogni forma di controllo - si tramuta in immediato, cogente malessere. Il ticchettio della pioggia sui vetri dei palazzi, a Glasgow, non è un suono dolce; è il ritmo ossessivo che scandisce la monotona sinfonia di una devastazione urbana da cui è difficile fuggire. Alienazione, miseria, frustrazione sono le parole-chiave di un'ordinaria follia intrisa di smog e pioggia, figlia sporca di un cielo plumbeo che non si apre al minimo spiraglio. Dipingere un siffatto scenario nei termini di una vera e propria "tempesta" è lucida, dolente coerenza.

Una tale consapevolezza, quella di essere "nato in una tempesta", Ricky Ross non è certo stato il primo a conseguirla; è forse, però, il primo ad averla urlata al mondo con un grido distinto e rabbioso, il disperato sfogo di chi sa che il sogno di una terra promessa in cui regni l'amore - "the very thing" - deve essere da qualche parte, non può rimanere meta di un viaggio meramente interiore. "Raintown" (1987) si presenta allora come una medaglia a due facce: da un lato, l'affresco doloroso, lucido, disincantato di una generazione di antieroi urbani, nuovi disadattati voluti da Lady Tatcher ("She offered me belongings / She thought I was the ragman", "Ragman"), costretti a maledire le proprie radici (la title-track, "Town To Be Blamed"), incapaci di riconoscere l'amore ("He calls her the chocolate girl / 'Cause he thinks she melts when he touches her", "Chocolate Girl") o addirittura impauriti da esso ("Love's Great Fears"); dall'altro - immutati i protagonisti - la narrazione (ben poco epica) delle gesta di piccoli eroi che oppongono all'incubo della quotidianità un anelito di redenzione, da rintracciare sotto le voci "amore" e, soprattutto, "dignità".

I nipotini del celebre plurale steelydaniano fondono i due lati della medaglia in quello che è uno dei più belli, significativi e sentiti dischi d'esordio degli anni '80, cui purtroppo non sarà concesso degno seguito (già il successivo "When The World Knows Your Name", 1989, pur valido, si collocherà varie tacche sotto alla prima prova). A farla da padrone sono le tastiere in questo mèlange che unisce pop energico (notevole la sezione ritmica in "Ragman" e "The Very Thing") a coinvolgenti ballate soul ("When Will You"), scampoli di dolcezze country (la deliziosa 'slide' di "Chocolate Girl") a melodie fresche ed immediate ("He Looks Like Spencer Tracy Now", la stupenda "Love's Great Fears"), per dare il colpo di coda con piccoli capolavori della forma-canzone (la perfezione di "Loaded", l'intro d'effetto e la carica emotiva in "Dignity"). Raramente parole così sofferte sono state contrappuntate da note tanto consolatorie; è questa l'intima forza, la grandezza di "Raintown". Un gioiellino di equilibrio melodico-lirico da concedersi e regalare, testamento indiscutibile di una potenza emotivo-espressiva che - ovunque si trovi ora Ricky Ross - non smetterà di fare breccia nel cuore di nuovi adepti.

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