Meglio il punk americano o quello inglese? Difficile rispondere a questo interrogativo. Come ho sempre sostenuto, infatti, non è di rilevante importanza la provenienza geografica del gruppo quanto la sua capacità di divertire, di emozionare e di creare un grande, contagioso e gustoso casino. Non importa, quindi, chiedersi se un gruppo di primordiale punk rock è (o è stato) figlio della terra d'albione o del paese dello Zio Sam e, concedetemelo, risulta un esercizio ozioso anche quello di capire a quale delle due nazioni appartenga la maternità del genere in esame.
Pensiamo ai Dead Boys del compianto Stiv Bators: un gruppo di scazzatissimi yankees, teppistelli dotati di facce brutte ed inquietanti (che il buon Lombroso non avrebbe esitato a bollare come "criminali"), amanti dello sballo sfrenato e del rock 'n' roll. Avevano qualcosa da invidiare ai loro blasonati colleghi d'oltremanica? Nulla. Tralasciamo, allora, la provenienza geografica della band e cerchiamo, finalmente liberi da questi vincoli, di apprezzare la loro scoppiettante proposta.
Una ciurma di giovinastri disimpegnati e chiassosi, sbandati e privi di "coscienza sociale", come già accennato, cresciuti con dosi massiccie di Stooges, di Detroit sound, di blues e di rock 'n' roll anni '60. Ragazzetti scalmanati tanto nella vita reale quanto su di un palco.
Nati dalle ceneri dei Rocket From The Tombs, i Dead Boys si imposero all'attenzione mondiale con il loro disco d'esordio: "Young, Loud And Snotty", opera datata 1977. Un concentrato di puro e grezzo R'N'R. Disco in grado di accorpare ciò che di barbaro proveniva dalla sporca e sotteranea America fondendolo, putridamente, con le nascenti sonorità "punk". Brani come "Sonic Reducer", "I Need Lunch" e "Not Anymore" sono gioielli di un'epoca destinata a non ritornare. Un album, in sintesi, paragonabile alla vibrante furia iconoclasta di capolavori dell'epoca quali "Nevermind The Bollocks", "The Clash" o "Damned, Damned, Damned".
Tutto qua? Manco per idea! Dopo un solo anno ecco il secondo ed attesissimo parto!
"We Have Come For Your Children", dato alle stampe nel giugno 1978, scaraventò altra viscida rabbia sulle facce dei fini art e progressive rockers ma, ancora una volta, riuscì ad entusiasmare i punkettoni più intransigenti oltre ai soliti ed immarcescibili amanti del rock più fresco e stradaiolo.
Grazie all'aiuto di Joey e Dee Dee Ramone (qui presenti in veste di ospiti), Bators e teppaglia diedero vita a dieci nuove canzoni. "3rd Generation Nation" è punk nel senso più autentico e aggressivo del termine, un brano che ricorda certe cose dei Ramones (guarda caso). Bellissime, in questo senso, anche "(I Don't Wanna Be No) Catholic Boy" e "Dead And Alive" . Leggermente diversa è invece "Son of Sam". C'e anche una cover di "Tell Me" degli Stones.
Il disco, nel suo complesso, scorre più che gradevolmente senza comunque raggiungere gli elevati picchi creativi (o distruttivi) del primo parto targato Dead Boys.
Ma è una canzone, più di altre, a rendere prezioso questo "We Have Come For Your Children". Sto parlando di una canzone struggente ed inaspettata. Si tratta, in realtà, di un'amara e pessimistica ballata, giocata su parti lente ed esplosioni furibonde. Un brano posto, forse per coincidenza o forse no, alla fine dell'album. La canzone si intitola "Ain't It Fun" e sembra essere in grado di prevedere due tristi eventi: il prematuro scioglimento del gruppo e l'altrettanto prematura scomparsa del cantante dei Dead Boys, avvenuta a Parigi nell'ormai lontano 1990.
E' bene, come già accennato, non sperticarsi in mille lodi: il secondo capitolo dei ragazzi morti non è fresco e sentito quanto il dinamitardo debutto! Un po' di stanchezza è infatti percepibile nelle tracce di questo disco. Consiglio, comunque, l'ascolto di "We're Come For Your Children" ed una sua eventuale rivalutazione in anni, come i nostri, di banalissimo rock plastificato e mediatico.
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