A bruciapelo: cos'hanno in comune Dead Can Dance e Soundgarden? Beh, pochino pochetto, se non lo status legittimatissimo di gruppi di enorme prestigio. A ben vedere, però, questi ensemble di artisti sono legati anche da una peculiare curiosità: entrambi tornano a pubblicare un album dopo sedici lunghi anni (almeno a livello di full-length). Ora, si sa che il silenzio è un problema filosofico di importanza centrale: basti pensare a Wittgenstein, o a un altro genio, tale Peter Steele, che ci ha messo in guardia sulla sua errata interpretazione. Tuttavia, ciò che arrovella noi ascoltatori, più che il silenzio in sé, sono le cause per cui si decide di uscirne e, soprattutto, cosa potrà essere partorito in seguito. C'è poco da dire: se per Cornell e soci dovremo aspettare il gelo novembrino, la nuova creatura di Perry e Gerrard è già una concreta e validissima realtà.

"Anastasis" deriva dal greco e significa "resurrezione": questo è quanto trovate scritto dappertutto. Nessuno, invece, dice questo: Gesù, prima di risorgere, è dovuto scendere, nel limbo. Per questo disco il discorso non cambia: potremo ricavarne pace e serenità, ma solo dopo esserci immersi nel mondo in cui viviamo e in noi stessi. Spesso la musica dei Dead Can Dance viene definita "metafisica": bene, qui abbiamo a che fare con una metafisica di tipo neoplatonico. Agiamo all'interno di noi stessi, riflettendo su quanto ci circonda, e approderemo al livello dell'Intelletto, dove tutto è in tutto; stato mentale che l'arte di questo splendido duo ci ha regalato più di una volta.

La voce baritonale e carezzevole di Brendan, nonostante infonda un brano quasi luminoso come "Children Of The Sun", ci avvisa da subito: "We are the children of the sun-Our journey has begun". Siamo gettati in questo mondo, e potremo assimilarlo e superarlo solo tramite un iter meditativo. "Anastasis" è un viaggio dall'anima duplice, ora razionale e vagamente tormentata (Perry), ora orientaleggiante e trascendente (Gerrard). Ecco, allora, che le riflessioni sul peso e sull'importanza del passato e della memoria ("Amnesia") e su un desiderio di liberazione quasi induista (l' introspettiva "Opium") sono abbracciate da frammenti di pensiero orientali ("Agape"), medievaleggianti ("Kiko") e folk ("Return Of The She-King"), declamati da una voce angelica in una lingua che a noi umani non è dato di intendere.

Non sarà un altro "Within The Realm Of A Dying Sun", ma "Anastasis" resta un'opera da leccarsi i baffi, e va a suggellare, almeno per ora, una carriera maestosa che (diciamolo) non volevamo avesse come sigillo finale il bistrattato "Spiritchaser". I Dead Can Dance ritrovano il giusto equilibrio tra l'etnico e il gotico, e ci regalano un lavoro che bisogna annoverare tra i migliori di questo 2012, la cui unica pecca potrebbe essere l'eccessiva durata di alcuni episodi, che rischiano di divenire ampollosi.

Opera, questa, che è sì un viaggio, ma della durata di un giorno: dall'alba di "Children Of The Sun" al tramonto solennemente annunciato di "Return Of The She-King", per poi svanire nelle tenebre dolcemente malinconiche di "All In Good Time", intrise della consapevolezza di chi ha ritrovato il vero rapporto col mondo e sa di aver fatto il suo tempo. Una conclusione catartica per salpare purificati e felici. I Dead Can Dance, ancora una volta, arrivano a tanto. Chissà, forse i morti possono ballare davvero.

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