Vent'anni per riuscire finalmente ad incontrarli.
Nel precedente tour la notizia arrivò, ahimé, troppo tardi alle mie orecchie, quando già da tempo era impossibile reperire un qualsiasi biglietto. Non così questa volta: appena venuto a conoscenza dell'evento, ho segnato la data sul calendario attendendo con trepidazione il giorno della messa in vendita dei biglietti. Risultato: prima fila con annessi onori ed oneri (vent'anni di attesa giustificano ampiamente qualche decina di euro spesi in più). Un biglietto fatto a scatola chiusa: solo ad Agosto si sarebbe ascoltato il nuovo disco del duo australiano. Così, quando mi son ritrovato ad ascoltare le nuove canzoni, ho cominciato ad immaginare che tipo di concerto avrei potuto aspettarmi.
"Anastasis", lo ammetto, al primo ascolto mi era apparso un po' troppo di maniera. Una maniera eccelsa, intendiamoci, ma forse mancante di qualcosa. Con i successivi ascolti, il disco è cresciuto. Ho imparato ad ascoltare e apprezzare questa nuova veste di Lisa Gerrard e Brendan Perry. Mancava forse qualcosa sì, ma quel qualcosa si era già perso tanti anni prima: il furore, la tensione che era appartenuta ai primi Dead Can Dance non poteva esistere più. Giustamente. Sono cresciuti loro, sono cambiati e maturati e la loro musica oggi è questo sopratutto: matura e consapevole; la loro capacità di produrre musica eccellente rimane immutata, più accessibile a tutti forse oggi, ma non per questo meno valida. Il vero passo falso del duo australiano semmai fu, a mio parere, "Spiritchaser" fin troppo facile, o meglio "piacione", non certo "Anastasis".
Ed è stato con questa consapevolezza che mi sono recato da Napoli a Milano, al Teatro degli Arcimboldi per il mio "Fatal impact". E' stato bello vedere già prima dell'inizio del concerto, persone di tutte le età, vestite prevalentemente di nero, sorridenti e visibilmente emozionate e così dovevo apparire anche io dall'esterno, sebbene indossassi una maglia multicolore. E tutte queste persone sono state una componente fondamentale del concerto: religiosamente in silenzio per tutta la durata di ogni singola canzone (salvo qualche piccolo brusio quando veniva riconosciuto qualche pezzo più datato), pronte a profondersi in entusiastici applausi al termine di ogni esecuzione.
L'acustica, a mio parere è stata buona, salvo qualche distorsione sui bassi, però prontamente corretta: il primo colpo di cassa di "Children of the sun" proprio al principio del concerto mi ha fatto seriamente temere per la tenuta dei miei timpani, ma per fortuna il pericolo è subito rientrato.
La scaletta ha naturalmente privilegiato l'ultima opera cosa che ha contrariato parte dei presenti: ma d'altra parte era prevedibile essendo la tournée di "Anastasis". Certo anche a me sarebbe piaciuto ascoltare tanti altri pezzi, ma probabilmente non sarebbero bastate 4 ore per accontentare tutti i presenti e, d'altra parte, i Dead Can Dance sono oggi questi, anche i pezzi più vecchi sono stati piegati a questo stato di cose, ed è un processo già intrapreso con "Toward the Within": si pensi alla differenza tra la versione di "Cantara" contenuta nel disco dal vivo (bellissima, nulla da obiettare) e quella decisamente più gotica presente in "Within the realm of a dying sun".
Personalmente non avrei sentito particolarmente la mancanza di "Nierika" o, soprattutto, di "Now we are free", ma la presenza di alcune gemme hanno perdonato ogni cosa, su tutte l'intensissima "Dreams made flesh" per me culmine emozionale del concerto alla pari con la versione di "Song to the siren" di Tim Buckley proposta da Perry, anche se avrei preferito di gran lunga sentirla arpeggiata dalla sua 12 corde.
Mi ha stupito "The host of seraphim", una delle mie canzoni preferite del loro repertorio: sentirla cantare in una tonalità differente mi ha spiazzato, lasciandomi il dubbio se sia stata una scelta dettate da esigenze vocali della Gerrard, o dalla volontà di armonizzare la sua voce con quella di Perry, tra l'altro molto più presente in questa versione dal vivo. Il risultato mi ha lasciato perplesso ed ha fatto sì che il pezzo che più attendevo non mi coinvolgesse poi troppo. E' stato piacevole invece osservare come, al termine di ogni pezzo, lei si voltasse sorridente verso di lui, segno, forse, di una ritrovata armonia magari foriera di futuri ulteriori sviluppi musicali nella discografia del duo.
In definitiva un concerto molto soddisfacente, elegante ed emozionante allo stesso tempo. Se dovessi descriverlo in una sola parola: bello. Tanto che, oggi che son passate due settimane, mi sentirei di rifare tutto (spese non banali, lunghissimo viaggio) per poter riprovare le stesse sensazioni. Quelle stesse sensazioni che, dopo tanti giorni, mi hanno spinto a scrivere questa recensione per condividere e fissare, in qualche modo, nel tempo quei momenti e se mi son dilungato molto scusatemi, erano vent'anni che lo volevo raccontare.
Carico i commenti... con calma