Prima di tutto mi devo scusare con il caro AXL se riesamino un album che da lui è già stato recensito, magistralmente; sarà forse inutile questa recensione, ma da tempo sono pervaso dalla indescrivibile voglia di comunicare in parte l'emozione che mi pervenne nell'ascoltare questa magnificenza; anzi colgo giusto l'occasione di ringraziarlo con tutto il cuore e, come lui, di ringraziare gli altri recensori che mi hanno fatto scoprire le calde e irreali atmosfere dei Dead Can Dance, gruppo che ormai è divenuto la mia ossessione.
In effetti, già da tempo avevo udito questo nome e le massime lodi puntualmente associate ai loro lavori; sentii anche del loro concerto, al quale purtroppo non potei andare. Dunque, incuriosito, andai a cercare informazioni sul loro gruppo; fu così che trovai DeBaser. Lessi per prima di quest'album; mi attirò subito la splendida copertina.
"... Davvero in pochissime altre occasioni ho percepito in maniera così disarmante cosa voglia dire essere rapito dal suono, o meglio lasciarsi consapevolmente trasportare da esso verso altri sistemi solari in cui tutto sembra scorrere con una paradisiaca armonia, e soprattutto nessuna - dico nessuna - nota risulta inutile o superflua..."
Cazzo, questo me lo devo prendere, pensai, me lo devo proprio prendere. Fu così l'indomani che andai da Ricordi: "Ci sono i Dead Can Dance?" Chiesi all'esperto di turno. "Bé, mi pare che ci fossero un paio di ciddì."
Per buona sorte trovai l'album desiderato. Ne rimirai ancora quelle due campane circondate da un inquietante paesaggio polare in copertina. Tornai in fretta a casa; mi ficcai in camera, chiusi le tende e le persiane e la porta - a chiave - quindi mi coricai sul letto rimirando qualche cosa in mezzo al vuoto delle tenebre, mentre il disco incominciava a roteare dolcemente. Era buio pesto. Notai però che la mia piccola stanza veniva lentamente rischiarata da luci numerose e potenti, mentre le sue pareti e il suo soffitto mi si allontanavano dando dunque vita ad una grande e bella sala nella quale si levava un forte applauso da tutti gli spettatori che magicamente mi si erano attorniati; anche io applaudevo. Mi accorsi dunque ch'era un teatro e ogni luce, ogni forma, ogni emozione presente in quel teatro attendeva impazientemente l'imminente arrivo di qualcosa, o di qualcuno. Meditai su questo, e mentre mi chiedevo quale mito, quale celebrità, quale dio avesse mai potuto causare una simile e opprimente attesa, ecco che le luci si fecero un po' più soffuse. Solo il palco era illuminato da un soave sprazzo luminoso in cui sorsero come dal niente due figure: una, tozza e robusta, l'altra, eterea e longilinea, avvolta da un lungo abito bianco. L'applauso terminò di colpo e la musica partì. E i due si misero a cantare.
Ad un tratto epoche remote, luoghi lontani, atmosfere irreali penetrarono nella mia mente. E le luci, tante luci, tutte di colore diverso e tutte belle; ero immerso in un profondo e dolcissimo torpore in cui tutti i cinque sensi raggiungevano il culmine massimo di piacere, esplorando stupefatto ogni sorta di forma e dimensione; tutta la mia concezione razionale e la mia stupida sicurezza venivano all'improvviso completamente spiazzate per lanciarmi in una profonda e fantasiosa armonia dalla quale, infine, angosciato e felice, ero giunto correndo in mezzo ad una sconfinata grotta dalle pareti malleabili e dolci che si muovevano continuamente a tratti ondulati e curveggianti, su cui celermente venivano proiettate innumerevoli e fantasiose geometrie di colore violaceo e blu scuro.
E come provavo fresca ed acuta libidine nel rimirare in lontananza la bella Lisa Gerrard mentre, imperterrita, penetrava entro fantasie vocali astratte ed argute e in mondi incontaminati e troppo profondi per la mediocrità umana, così avvertivo mestamente una teporosa nostalgia quando Brendan Perry inspiegabilmente richiamava malinconici ricordi d'infanzia...
Infine, la magia si concluse, e mi resi conto di essere ritornato a casa mia, nella mia camera stretta e buia. Ero sfinito, chissà perché: forse quell'opera si era talmente avvicinata alla Perfezione così da raggiungere la capacità di ghermire non solo l'anima e l'essenza della Vita, ma anche il corpo, la realtà della Vita? Forse.
Certo era ch'ero reduce da una dolce e stupenda avventura grazie alla quale probabilmente si era verificato in me un qualche cambiamento, in qualche posto, là, presso gli antri più remoti ed oscuri della mia psiche; ancora incredibilmente stupefatto, mi chiedevo allora quale mai fosse stato il segreto della loro musica, l'ingrediente speciale delle loro magiche ricette. La risposta? L'amore, certo: quell'amore puro e platonico, quel legame che esisteva tra Lisa e Brendan, un amore così forte e così intenso che finì col tramutarsi in musica.
I lavori dei Dead Can Dance quindi sono indiscutibilmente la prova terrena e tangibile del loro profondo connubio e della loro intesa in nome della Musica.
Poetico, no?
"La mia voce è il mio strumento... non credo che ci siano parole per descrivere ciò che faccio... io creo rumori." (Lisa Gerrard)
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