Ai confini della realtà.
Non si potrebbe dire diversamente di questo disco live degli australiani Dead Can Dance, registrato nel 1994 nella magica atmosfera del Mayfair Theatre di Santa Monica, in California.
Davvero in pochissime altre occasioni ho percepito in maniera così disarmante cosa voglia dire essere rapito dal suono, o meglio lasciarsi consapevolmente trasportare da esso verso altri sistemi solari in cui tutto sembra scorrere con una paradisiaca armonia, e soprattutto nessuna - dico nessuna - nota risulta inutile o superflua.

Una Lisa Gerrard che canta completamente vestita di bianco e suona con leggerezza ed etereo distacco lo yang ch'in riesce a trascinare l'attentissima e competente platea verso un autentico karma; cosa che si percepisce, ascoltando il disco, facendo caso al breve lasso di tempo che intercorre fra la fine di ogni canzone e gli applausi che seguono. Come se, appunto, dopo ogni brano ci volesse lo schioccare delle dita per risvegliare dalla trance gli spettatori.
Accanto alla semidea Gerrard, che dà l'impressione di levitare sul palco avvolta nella sua tunica e praticamente immobile per tutto il concerto (consiglio di vedere il DVD tratto da questo concerto) c'è l'altra mente del gruppo, quel Brendan Perry sorprendente alla chitarra 12 corde e ancora più mistico come vocalist, grazie alla sua dimestichezza nel passare dai toni più bassi agli acuti che da lui non ci si aspetterebbe. A completare l'ensemble, una decina di musicisti di prim'ordine che suonano praticamente di tutto: dai djembèe alle tibetan bells, con scambi di strumento fra un musicista e l'altro che danno un'idea del talento poliedrico di chi quella sera di undici anni fa ha incantato il pubblico californiano.


Difficile dare una connotazione a questo lavoro, viste le molteplici influenze che lo caratterizzano, figlie della latitudine di origine dei DCD, nonchè dei numerosi viaggi "di studio" intrapresi da Gerrard e Perry durante la loro carriera. Si canta in arabo ("Persian love song", "Rakim", "Oman"), ci sono citazioni a dir poco colte ("The wind that shakes the Barley" è una poesia di R.D. Joyce di metà Ottocento; "Tristan" addirittura risale al dodicesimo secolo, frutto dell'ingegno di Goffredo di Strasburgo) e ci si spinge fino a mettersi in discussione con brani come "Song of the Sibyl" (è una specie di ninna-nanna che si cantava in alcune zone della Catalogna fino a 100 anni fa... non male per un gruppo australiano) e "I am stretched on your grave" (che è per un irlandese ciò che "Nel blu dipinto di blu" è per un italiano, ovviamente nel senso di notorietà...).
Le speranze di tenere gli occhi aperti durante l'ascolto sono davvero ridotte al lumicino, la trance è costantemente dietro l'angolo, e fanno bene i DCD a spezzare ogni tanto la catarsi con qualche momento movimentato (la violenza con cui viene eseguita "Cantara" rimanda ai più ancestrali riti di iniziazione dell'Africa centrale, un autentico delirio).

Ma gli attimi in cui l'anima si stacca dal corpo sono davvero troppi, e qui a posteriori aumenta la rabbia per un disco che a conti fatti è conosciuto soltanto da chi aveva già a casa il catalogo completo della 4AD.

Difficile di conseguenza assegnare la palma di miglior brano. Posso dire che, "cover" a parte, il picco di pelle d'oca si raggiunge con "Sanvean", brano che appare anche sul disco solista di Lisa Gerrard "The mirror pool", ma che in questa versione live costituisce un autentico sequestro-lampo di tutti e cinque i sensi: qualche lacrima potrebbe sorprendere anche i più duri. E una citazione a parte merita la ballad che chiude il disco, "Don't fade away", con un Brendan Perry quasi commovente in quella che probabilmente resta la sua interpretazione migliore. Ancora più struggente seguire quest'ultima canzone dal dvd, mentre scorrono i titoli di coda e decine di rose piovono su una Lisa Gerrard che finalmente accenna un sorriso, appena rientrata da mondi lontanissimi che però stavolta anche noi siamo riusciti quantomeno a sfiorare.

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