Mi piacciono le feste di matrimonio.
Degli altri, ché alla mia ancora non mi sono invitato.
Leggenda narra che i Dead Man Ray siano un'idea nata proprio ad una festa di matrimonio. Immagino che Daan Stuyven (piano, wurlitzer, hammond, moog, voce camaleontica) e Rudy Trouvé (chitarre e disordini sonori), dopo chissà quale conversazione, con occhio crepato e alito che profuma di prosecco, abbiano deciso di collaborare tra loro, in preda ai fumi dell'alcol, quando non ragioni bene e tutto ti sembra possibile.
Ha avuto origine così, il gruppo più 'mainstream' di Trouvé - o la band più 'alternativa' di Stuyven, strimpellando nella casa di quest'ultimo durante l'incontro post festeggiamenti (e post sbronza), e trasformando un convegno di avvinazzati nella prima vera canzone del gruppo, dal titolo profetico: Chemical. Evidentemente di chimica si è trattato, se da quella improvvisata jam senza troppe pretese, si sono concretizzati nell'arco di una decina d'anni, tre dischi (l'ultimo "Cago" del 2002, prodotto da Steve Albini), un E.P., più qualche singolo. Tutto su etichetta HeavenHotel.
Il disco in questione, "Berchem", è il primo e probabilmente il migliore.
La primogenita di questo fulmineo matrimonio, Chemical, ha una struttura essenziale, costruita su due note di chitarra, batteria e basso che più facile di così si suonano da soli e ritornello fulminante.
Stop, tutto qua. Pochi fronzoli ed ecco una probabile, perfetta canzone pop.
E questo sarà l'approccio per le restanti sedici canzoni del disco, abbozzando melodie, distrattamente come se si conversasse tra ubriachi e strizzando l'occhio un po' ovunque, ma senza affondare, come si conviene alla Pop Music. Fatta bene, aggiungerei.
Un disco eterogeneo e giocoso, che pesca dal Punk in WW3, dal Trip Hop di Inc. che ricorda vagamente i Portishead, Bread ha un retrogusto country rock e avanti di questo passo.
Un valanga di bozze e spezzoni di canzoni, assemblate successivamente al computer. E se il risultato non è così frammentario come potrebbe sembrare, il merito va sicuramente al meticoloso lavoro di taglio e cucito svolto dai due in studio, ed all'unico, vero filo conduttore, la voce di Stuyven.
A volte profonda e baritonale da ricordare Nick Cave, a volte fumettistica, si modella alla perfezione adagiandosi su ogni costruzione sonora.
Se alcuni dischi nascono così, in maniera spontanea, sanno certamente trasmettere l'emozione che cerchiamo quando ascoltiamo musica.
Quell'emozione spesso si materializza nel sorriso da coglione che mi si stampa sulla faccia, mentre sono in macchina e dalle casse parte Chemical con il suo ritornello in falsetto: "Chemical Nation, don't stop at the start rebegin" ed io con la voce un po' gaya lo imito - forse perché non ragiono bene e tutto mi sembra possibile.
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