"A Lullaby For The Devil", quinto capitolo della discografia dei Deadsoul Tribe di Devon "boccia" Graves, è uscito nel settembre del 2007. Innanzitutto mi sento di dover far notare la copertina dell'album che trovo molto bella nella sua semplicità.

Eccovi la track-list:

1. Psychosphere

2. Goodbye City Life

3. Here Come the Pigs

4. Lost in You

5. A Stairway to Nowhere

6. The Gossamer Strand

7. Any Sign at All

8. Fear

9. Further Down

10. A Lullaby for the Devil

Durata totale: 53 minuti.

Sebbene la prima traccia del disco, "Psychosphere" possa portare l'ascoltatore a farsi un'idea errata di come sarà realmente quest'album in seguito, ci tiene svegli e vigili, con i suoi ritmi veloci e il cantato quasi growl (forse la cosa che meno mi è andata giù è proprio questa, la presenza in alcuni pezzi di una voce troppo sporca).

Passata la opener, entriamo nel vivo dell'album: ritmi lenti e melodie pacate mutano in fretta in andamenti veloci e aggressivi, tanto che in alcuni tratti il cambiamento è talmente improvviso da togliere il fiato. In pochi secondi tutto si trasforma, ma in ogni pezzo, tutto è incredibilmente coerente, e perfino quando compare per la prima volta il flauto traverso, nella seconda traccia, "Good bye city life", si sente un nesso con quanto di più duro l'album ha da offrirci.

E in effetti l'album ha davvero molto da regalare a noi ascoltatori, raggiungendo in alcune tracce degli standard veramente elevati; ne sono un esempio "The Gossamer Strand" e la malinconica "Lost in you". Nella prima, è il flauto a tenere la scena, accompagnato in alcuni movimenti dalla tastiera, in altri dalla chitarra, in altri ancora dalla sola batteria, con la quale terrà nel bel mezzo del brano una concertazione che rimanda molto ai Jethro Tull.
"Lost in you" è invece un pezzo che si mantiene molto melodico nella strofa, per poi liberare la rabbia e la potenza nel ritornello, dando sfogo alla disperazione e alla rassegnazione che sembrano permeare la canzone.

Degna di note sono pure "Any sign at all", che accentua il carattere tribale dell'opera, e la conclusiva title-track, che forse è l'esempio più rappresentativo dell'agitazione che caratterizza l'album e che trasmette all'ascoltatore: tra momenti di preoccupazione, rassegnazione, rabbia, si incontrano attimi di tranquillità. Ma sembra che la tranquillità sia solo un'illusione, che viene subito infranta dal ritorno di atmosfere tormentate.

Le prestazioni di Devon sono ottime, sia dal punto di vista vocale che strumentale; fatta eccezione della batteria infatti, tutta la strumentazione in studio è stata registrata da Graves. Dietro le pelli siede un certo Adel Moustafa la cui prestazione mi ha piacevolmente stupito.

In definitiva ci troviamo davanti a un ottimo album, molto originale e coinvolgente, che non si perde in inutili tecnicismi ma che invece va dritto al sodo, offrendoci su un piatto d'argento un vero e proprio "guazzabuglio" di sensazioni che raramente troviamo così bene mescolate tra loro.

VOTO: 8,5

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