Tornano i Death Grips, torna la loro strafottenza musicata.

Si erano fatti attendere, avevano addirittura minacciato l’addio, ma eccoli di nuovo qui, ad aggredire i nostri padiglioni auricolari con un nuovo disco, un nuovo capitolo della loro ispirata saga discografica.

Era la metà del 2015 quando The Powers That B trovava finalmente la sua completezza. L’abilità della band di Sacramento nel creare e cavalcare l’hype provocato dalla propria musica lì portò ad intraprendere nuovi tour, ma soprattutto ad annunciare un nuovo studio-album.

Nell’ottobre 2015, fu annunciato Bottomless Pit, accompagnato da un video, piuttosto straniante, in cui la defunta attrice Karen Black recita un dialogo scritto da Zach Hill, batterista della band.

Poi il silenzio, o quasi. Impegnati in numerose date live, come già detto, i Death Grips si affacciarono al proprio pubblico postando prima un nuovo singolo, “Hot Head”, e successivamente un secondo video di una non-intervista, il cui sottofondo sonoro è divenuto poi un ep di sole strumentali, intitolato Interview 2016, musicalmente simile a Fashion Week, altro episodio strumentale della band californiana. Inoltre, ad un giorno dalla release, alla stregua di un ARG, viene rilasciato un numero telefonico tramite il quale era possibile udire una seconda canzone, “Trash”, oltre a diversi samples più o meno criptici.

Fatte le dovute premesse riguardo a questo nuovo full-length, sono tre gli aspetti che mi hanno sempre affascinato di questa band.

La capacità di coniugare tantissime e disparate influenze; la bravura di amalgamare tutto ciò in qualcosa di tremendamente catchy e facilmente assimilabile, diretto, in-your-face; la costante qualità tra una release ed un’altra, come fosse frutto di un’ispirazione continua ed inesauribile, dove ogni episodio discografico, offre nuovi spunti, nuove chiavi di lettura di un sound tanto ricercato ed imprevedibile, quanto ormai riconoscibile e originale.

Il songwriting del neonato Bottomless Pit soprattutto, funge da summa di tutto ciò.

Tutte le influenze, dal seminale Ex-Military, al convulso The Money Store, dal cybernetico No Love Deep Web con il suo mini-gemello (per chi scrive) Government Plates, al furore digital/punk/rap del doppio The Powers That B, sono qui raccolte, culminate in un unicum di 40 minuti di sagacia compositiva. Una tale eterodossia musicale che difficilmente vi lascerà apatici ed indifferenti, fin dal primo ascolto, qualsiasi sia il vostro background in fatto di ascolti. Chi li ha amati, li amerà ancora di più, chi non li conosce e cerca qualcosa di veramente unico avrà trovato la sua jam.

Se la prima parte del disco aggredisce con ferocia tra blast-beat a là black metal (“Giving Bad People Good Ideas”), scioglilingua da impossessato cronico di chissà quale male (“Hot Head”) e pulsanti uragani dal retrogusto elettro/sintetico/chitarristico (“Spikes”, “Warped”), è nel proseguo che l’atmosfera ed i vari pezzi del puzzle sonico dei Death Grips vengono fuori. Un’anarchia assoluta dove anche episodi più orecchiabili (“Eh”, “Houdini”) ed altri più cadenzati e bilanciati (“Bubbles Buried In This Jungle”, “BB Poison”, “80808”) completano un ossimorico susseguirsi ordinato/schizofrenico di salite e discese, che rende l’ascolto divertente e mai sbadiglioforo. I tessuti sonori sono così intricati e particolari, e nel rendere facile il difficile e melodico il rumoroso, i Death Grips toccano una moltitudine di cose, con estrema classe e con una grandissima dose di rudezza.

Questa musica è ormai un frullato iperproteico di rap, elettronica, chitarre e noise music. E credetemi, l’astruso termine “Industrial Hip Hop”, ormai non serve più a nulla.

Stefan Burnett, alias MC Ride, prende con forza lo scettro di miglior frontman dei tempi recenti. Non me ne vogliano i puristi del rap, dell’hardcore punk, o del metal, ma la sua performance dietro il microfono è incredibile, gigantesca, nel saper gestire emotività, grinta, rabbia e paranoie varie. Renderebbe orgoglioso Mike Patton! Dalle urla al sottovoce, il nerboruto cantante funge da perfetto collante nella feroce bellezza di questa musica così ricca di spunti. Dietro di lui l’immenso lavoro di Zach Hill e Flatlander; il primo alla batteria è un assoluto prodigio, nel districarsi in ogni tipo di partitura ritmica; il secondo dimostra veramente sapienza nel creare un lavoro omogeneo tra synth, chitarre, rumorismo e campionamenti.

Assolutamente imperdibile in un 2016 comunque già colmo di tante uscite interessanti.

Un saluto ai lettori di DeBaser!

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