Ero ancora musicalmente un troglodita quando per sbaglio mi capitò in mano una vecchia cassetta di “The Piper at the Gates of Dawn”. Questo ed altro può accadere quando stai cercando materiale non ortodosso nell’armadio di tuo zio. Fu amore al primo ascolto. Fu per me come una droga. Non riuscivo a trovare un’etichetta da appiccicare a quella musica tanto aliena.
Ci volle tempo per capire che non ne avevo bisogno. Da lì si aprì un mondo, e progressivamente mi allontanai, mi persi cercando in ogni nuova scoperta quella scintilla che tanto mi aveva scosso. Non si ritrova mai l’ebbrezza della prima volta: la vita sa essere crudele. Lasciando cadere dietro di me, per anni, quel primo amore, affogai nell’oblio quella sorta di venerazione sacrale. Poi, esattamente un anno fa, feci quest’amara scoperta: il primo amore tornerà sempre a trovarti e troverà sempre modo di spezzarti il cuore. Ti mostrerà che quella che ricordavi come una figura angelica in realtà aveva un rossetto slabbrato, dei modi rozzi, si sarebbe divertita a far l’amore con la peggior feccia. Arrivai in questo modo all’ascolto di “I want it I need it (Death beate)”, brano dei (a me sconosciuti) Death Grips. Era davvero “Interstellar Overdrive” come la conoscevo? Cosa le era successo? Perché si lasciava mettere addosso quelle sporche mani? Perché era così in sintonia con quei tipi poco raccomandabili? Perché “Astronomy Domine” si lasciava convincere a partecipare ad un rapporto a tre? Vedere il tuo primo amore corrotto in quel modo, nonostante te l’abbia da tempo trasfigurato, ti annichilisce. E sa renderti cattivo. Da allora maturò in me un odio istintivo per questo trio di Sacramento.
Ma, come da manuale, più cresce l’odio per il rivale, più quest’ultimo sembra brillare di una luce accecante. Allora, come un voyeur, li spiavo, cercavo di capire in cosa fossero migliori di me. Cominciai a seguirne le tracce e arrivò “The Money Store”, proprio lo scorso aprile. Speravo proprio di vederli affondare, perdere il loro smalto, trovare un qualsiasi pretesto per sbugiardarli. Cosa facevano se non imprecare, vomitare odio per il prossimo, dissacrare quanto di puro vorresti tener stretto? Fondamentalmente dei gran bastardi. Eppure il mio odio non faceva altro che mascherare un’ammirazione che, in qualsiasi modo, tentavo di annegare. Ed ora arriva il colpo di grazia, la stoccata finale che dovrebbe lasciare il mio corpo steso al suolo.
Primo ottobre: “No Love Deep Web” è disponibile in streaming per protesta contro l’etichetta che aveva prodotto fin lì questo trio. Sono inizialmente di futili speranze: dopo un album come “The Money Store” è impossibile che questi farabutti siano riusciti nell’impresa, a così breve distanza, di ripetere i livelli raggiunti in quel lavoro. Nei primi secondi d’ascolto vengo subito messo a tacere. Bassi implacabili, al limite del disturbante, mi spezzano le gambe non appena “Come up and get me” annuncia il suo incedere malato. Sono ancora loro, in uno stato di grazia che illumina il loro cammino, mandando me alla deriva. Quelle rime aspre mi ricordavano del loro essere sprezzanti, della loro poco considerazione circa il mio odio. Ma a quel punto il mio odio non era più catalogabile, ero pervaso da una perversa attrazione. La sinistra cadenza di “No Love” sembrava invitarmi alla resa, ad un amore incondizionato, a lasciarmi inghiottire senza riserve. “Lock your Doors” sembrava proclamare la loro imminente venuta: sarebbero arrivati per trascinarmi via, accompagnati da quella folla di voci che come un tappeto sonoro innalzavano il rappare di Burnett. Ero in preda ad un “Odi et amo” catulliano. Ma non potevo lasciarmi prendere vivo, non da quell’orda fetida. Quell’odore di putrefazione sembrava quasi traslato in beni di consumo luccicanti, come lattice nero per stivali e frustini. Poi arriva “Deep Web”. È come un ariete puntato sul mio torace. Ma io voglio resistere. Si erano presi quello che di più angelico avevo, ma non mi sarei lasciato inghiottire. Con “Pop” sono confuso, suoni ascendenti, intrecciati come una spirale, che si fanno sempre più celestiali; per poi buttarti d’improvviso nell’abisso. Arrivo all’ultima traccia, per una sorta di macabra curiosità non riesco a premere il tasto stop. “Artificial Death in the West” suona come una sentenza. Ma non la comprendo. A questo punto non so cosa fare. Non voglio nemmeno sapere cosa censuri quella barra nera in copertina. Lascio partire di nuovo “I want it I need it”, ma stavolta lo faccio guardando dritto in faccia il mio nemico. Non riconosco più nessuno dei protagonisti. Non capisco più da che parte della barricata sono.
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