Vi sono opere che travalicano il senso stesso di opera artistica, vi sono opere, in ogni tipo di forma d'arte conosciuta capaci di scatenare sussulti emotivi esorbitanti, di cogliere la perfezione dell'attimo e propagare quello stesso attimo all' infinito, di rendere eterna la perfezione estetica ed emotiva intrinseca in essa.

L'album dei simboli infranti dei Death In June rientra perfettamente in questo olimpo di opere d'arte illuminate, aderendo perfettamente ad ogni dettame di ciò che si può definire un capolavoro, ogni composizione è ammantata dalla luce ardente di mille crepuscoli fiammeggianti, di afflati marmorei eroici ed eterni. E' il disco della rinascita, sia per i Death In June come formazione e sia per Douglas P., si ridefinisce e si porta a compimento un suono, il suono Death In June, un suono unico e profondamente personale fin dai suoi albori come band fino ad arrivare ai tempi in cui a portare avanti il grandioso disegno artistico dei DIJ fu il solo Doulas Pearce.

L'opera che consegue irradia di luce nuova l'operato deathinjuneiano ed al tempo stesso ne è fedele continuazione d'intenti, la sua solenne austerità e la sua sublime chiarezza cristallina sono il fulcro stesso di un rifugio dalle bassezze del mondo, la decadenza e la cupezza che da sempre circondano l'operato Death In June sono qui presenti, sì, ma in maniera differente, sormontati come sono da un' intrinseca forza vitale immersa in una crescente oscurità. E' proprio al centro di quest'oscurità che l'opera ha inizio, con quel viaggio al culmine della notte che è “Death Is The Martyr Of Beauty”, con le sue melodie splendenti, crepuscoli di ghiaccio e il canto di Douglas P. straziante e meraviglioso allo stesso tempo, tra arpeggi acustici e armonie criptiche cesellate in costruzioni strumentali e liriche pregne di malinconia. Il disco procede, uno dopo l'altro si ergono in tutta la loro pura bellezza i brani, dalle fiere ed eroiche (eppur fragili ed intimistiche) meraviglie come “Because Of Him” ed “The Golden Wedding Of Sorrow”, ai sussulti morriconiani delle immense cavalcate austere “He's Disabled”, “The Mourner's Bench” e “Little Black Angel”, aurei mosaici elettroacustici dotati di immensa vitalità ed innata forza espressiva, toccando vette emozionali a tratti strazianti. Ci sono poi le atmosfere rarefatte ed incantate di “The Giddy Edge Of Light” incastonate in scenari immobili e gelidi, o ancora gli slanci canori della title-track, rivestita di epici ed altisonanti diademi melodici luminescenti.

L'amico David Tibet (Current 93) marchia con il suo straniante canto la preziosa “Daedalus Rising”, onirica e leggiadra, aeriforme e malinconica, il canto sofferto e a tratti stridulo di Tibet è all' opposto dell'oracolare baritono di Douglas P., ma si sposa alla perfezione con l'arte musicale deathinjuneiana, ma forse la vetta assoluta di questo capolavoro rimarrà sempre quella “Hollows Of Devotion”, quella straordinaria elegia ai sogni, cesellata tra sussulti strumentali d'oro zecchino, incastona emotività lacerante e prodezze liriche straordinarie, è cristallina ed onirica, è corallo e madreperla, con quegli svettanti soffi trombettistici a dir poco immensi e totalizzanti ed un canto sublime ad innestarsi sulle toccanti melodie.

Disco chiave questo scrigno di simboli infranti per la storia dei Death In June, ed anche uno degli esempi più luminosi di tutto ciò che la musica dovrebbe essere.

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