Fra i classici svantaggi e vantaggi che presenta il vivere in una città complicata come Londra, di sicuro una nota positiva è il capitolo concerti. Ogni giorno, ogni sera, ci sono concerti a Londra, perché tutti in effetti passano da Londra. Ti interessa un artista che magari ha rilasciato un album di recente? Vai su internet e scopri che il giovedì successivo suona a venti minuti di metro da dove vivi. Funziona così. Facendo dunque le mie ricerche, appresi che nel solo mese di ottobre avrebbero calcato i palchi di questa città niente meno che Death in June, Fire + Ice, Hypnopazuzu (il nuovo progetto di David Tibet, Current 93) e Blood Axis: in pratica quasi tutti i massimi esponenti del folk apocalittico (per i Sol Invictus dovremo aspettare il prossimo giro), gente che peraltro ho già visto dal vivo, ed in certi casi anche più di una volta. Ma quale migliore occasione per spiccare il volo come un provetto "Lucifer over London" e fare il punto della situazione nell'anno di grazia 2016, a quasi trent'anni circa dalla nascita del genere?
"The Last Europa Kiss Tour" è stato annunciato come l'ultimo dei Death in June, ed anche se non ci si crede (non è la prima volta che Pearce minaccia di ritirarsi dall'attività concertistica), se non altro è il tour post Brexit, dettaglio interessante se si pensa alla centralità che l'immagine dell'Europa ha ricoperto nella poetica del Nostro. Ed in effetti a fare da sfondo sul palco troviamo lo stendardo del classico Totenkopt con un'areola di stelline a richiamare la bandiera dell'UE: è la sera di sabato 8 ottobre e siamo all'Underworld, locale sottoterraneo specializzato in metal o altri generi da reietti. Non è grande, ma non è nemmeno piccolo (raccolto, oserei definirlo), ed alla fine si rivelerà l'ambiente ideale per un raduno di questo tipo. La popolazione è sostanzialmente dark, con frange spinte sul versante fetish e qualche inevitabile caso umano: l'atmosfera è tuttavia rassicurante, perché si ha l'impressione che sotto questi abiti in pelle si celino l'impiegato delle poste e la professoressa delle medie pronti lunedì mattina a svolgere con diligenza il proprio lavoro.
Aprono la serata niente meno che i Fire + Ice del veterano Ian Read, che si presenta sul palco in cappotto e sembra veramente mio nonno, por'anima. Alla sua sinistra un chitarrista che avrà sedici anni ed alla destra un palestrato che maneggia una fisarmonica maculata in stile camouflage. Nel breve set (tre quarti d'ora al massimo) si condensano i maggiori classici del progetto (ma non vengono fatte "Michael", partorita ai tempi dei Sol Invictus, né "Benediction/Malediction", perla presente in "Swastikas for Noddis" dei C93, le quali dal vivo rappresentano sempre momenti di grande suggestione): il tutto procederà dritto alla fine senza particolare enfasi, con l'infante alla chitarra che arpeggia con precisione da nerd e l'energumeno che si divide fra fisarmonica e trottanti percussioni. Giocando in casa, Read appare più loquace del solito, sbiascica con la sua voce farneticante fra un brano e l'altro, si permette frequenti scambi di battute con il pubblico, ma la sua ironia è come quella del nonno di estrema destra, e quindi fa ridere fino ad un certo punto. Ma attenzione, colpo di scena, viene annunciato Douglas Pearce, chiamato a dare una mano per due pezzi che aveva scritto per i Fire + Ice ("Take My Hand" e "Fractured Again"). Senza maschera, con il gilet da pescatore, occhiali da vista (con tanto di cordino per meglio assicurarli al collo), buzza e baffi, defilato e mezzo nascosto dietro a Ian Read, egli sembra l'ultimo degli ultimi. Della serie: certa gente non si rende conto dell'importanza che la propria figura può rivestire per chi lo va a vedere. Ok, Pearce l'irriverente, Pearce l'onorevole sconfitto, Pearce l'anti-divo per eccellenza, però un po' di sana auto-celebrazione non avrebbe affatto guastato; se lo sarebbe potuto permettere.
È dunque il turno dei Death in June. Lo stesso palestrato che aveva suonato la fisarmonica si ripresenta adesso in tenuta militare e con una mascherina di carnevale che sembra comprata a due sterline al Sainsbury: siede alle tastiere e dalla bravura con cui si destreggia fra i tasti capisco che si tratta niente meno che di Miro Snejdr, il giovane talento che aveva rivestito di pianoforte i brani di "The Peaceful Snow". E’ solo e l'introduzione è un breve medley strumentale di brani vecchi e nuovi dei Death in June. Fumo, tuoni, rumori minacciosi in sottofondo e tutti noi trepidanti ad aspettare la stessa cosa: l'ingresso di Pearce, che in mimetica e maschera si presenta ululando, creando un effetto a dir poco surreale. La prima parte del concerto ammalia, e - devo ammettere - i non esaltanti brani di "The Peaceful Snow" rendono molto bene dal vivo, con Snejdr che ci dà sotto e la voce forte e chiara di Pearce. Segue l'immancabile parentesi percussiva, dove Snejdr passa al tamburone e Pearce sfodera il suo lato più declamatorio, nella consueta rilettura minimalista dei brani del passato più remoto. Toccato il culmine con il classico "Till the Living Flesh is Burned" i due portano a termine in modo egregio anche questa fase e ci si può dire soddisfatti, ma è anche vero che siamo all'antipasto, in attesa del momento in cui il Nostro sarà solo sul palco con la chitarra in mano.
Ma quello che si pensava essere il nocciolo del concerto volerà via in un attimo, incarnato da una ventina di pezzi eseguiti in modo frettoloso e senza particolare sentimento. Sulla scaletta, invero, non vi sarà nulla da ridire, vista la sequela impressionante di classici che si susseguiranno senza soluzione di continuità. Ed anche lo spazio concesso ai brani dell'ultimo decennio non sembra sprecato, visto che paradossalmente quelli sono la dimensione in cui Pearce sembra trovarsi più a suo agio, forse perché meno annoiato nel riproporli. Quanto a quelli vecchi, il Nostro si permetterà delle licenze che rasentano il sacrilegio. E così "To Drown a Rose" verrà interrotta a metà perché fa troppo caldo sul palco; il ritornello di "Behind the Rose (Fields of Rape)" verrà cambiato in corsa con ironici riferimenti alla Brexit; il giro di tastiere che fa da incipit alla mitica "Rose Clouds of Holocaust" verrà fatto con la voce. Insomma, di certo non si può criticare Pearce di prendersi troppo sul serio, però il suo modo di fare è fin troppo irrispettoso della grande musica di cui è stato autore, come se non fosse consapevole del suo status di guru di un intero genere.
Cosa avrei preteso io (e non chiedo la luna, visto che era una soluzione da sempre adottata nei tour della Morte in Giugno): farsi almeno dare una mano da un percussionista per rafforzare dei brani che così ridotti all'osso e suonati di fretta suonano troppo simili fra loro. Probabilmente, per il suo ultimo tour, Pearce non ha voluto far sì che venisse usurpato il posto che fu dello storico "battitore di pelli", nonché amico di vecchia data, John Murphy, venuto a mancare di recente (a proposito: immancabile la dedica a lui indirizzata). E così tutto corre alla velocità della luce con un Pearce fra l'ilare e lo svogliato che sembra più partecipe nei siparietti fra un brano e l'altro che nell'esecuzione degli stessi. Il bis, infine, sarà una breve nenia per sola voce dedicata a Londra, dove il Nostro ribadirà il suo rammarico per l'uscita della Gran Bretagna dall'UE e a conti fatti sarà il momento più sincero e toccante della serata.
Buona pensione, Douglas!
Tutt'altra faccenda, e tutt'altro ordine di problemi, per David Tibet, che si è esibito sabato 22 ottobre presso la Union Chapel, un chiesone maestoso, non so se sconsacrato perché dentro non si potevano bere alcolici. Il tocco di Tibet, sempre attento a scegliere luoghi speciali per le sue comparsate dal vivo, si vede: si entra e si è accolti da un ambiente magico, fra soffuse luci blu e il ronzio di droni in filodiffusione, un'atmosfera "ascetica" che io definirei da "bagno di gong". Anche la gente sembra uscita da un mondo di fiaba. Si, l'indirizzo generale è sempre dark, ma ci si sente più a casa: gente di una certa età, qualche freakettone, look ricercato ma non stereotipato, tante barbe lunghe e vaporose, ma soprattutto meno plastica ed abiti comprati su internet. Tutti seduti sulle panche ad aspettare il sacerdote.
Come antipasto abbiamo gli Stargazer's Assistant, trio dedito ad una proposta a metà strada fra musica rituale e kosmische, francamente un'esibizione un po' noiosa. Più che altro mi lascia perplesso il personaggio al centro, quello che fra noi ha sicuramente la barba più lunga, il quale fra percussioni, fisarmonica, gong (appunto) ed aggeggi vari (persino una tanica vuota), con viso serioso e gesti lenti e solenni, si dà un gran da fare, lasciando però l'impressione di non essere poi così portato per la musica. Fra uno sbadiglio e l'altro, e dopo tre lunghe e soporifere suite strumentali, si giunge alla fine del set che per lo meno ha avuto il pregio di non essere stato fastidioso.
Fanno il loro ingresso coloro che stasera incarnano Hypnopazuzu, per ultimo Tibet, che al suo solito sembra un mentecatto: leggermente ingrassato, volto glabro, cappello e completo da clochard, gesti impacciati per tirare fuori dalla sua borsina di stoffa il fido quaderno degli appunti che riporrà sul consueto leggio. Ma non è che i suoi compagni siano più belli, a partire dall'altra "celebrità" presente sul palco, nonché co-titolare del progetto Hypnopazuzu (una operazione che va a rinnovare una collaborazione risalente a più di trenta anni fa con il seminale "Nature Unveiled"): Martin "Youth" Glover, già bassista e fondatore dei Killing Joke e poi produttore di grido, con la sua caratteristica visierina e i ciuffi di capelli che scappano fuori alla rinfusa, sembra uno scemo che si aggira per i palchi di Londra (l'ho visto in compagnia degli Orb qualche mese fa a Brixton, senza peraltro apportare un grande contributo all'esibizione degli inglesi): Più presenza scenica che altro, Glover, come musicista, il suo tempo secondo me l'ha fatto, e stasera alla Union Chapel, sempre distratto e ciarliero (ad un certo punto si è messo a dare consigli al batterista su come suonare lo strumento per valorizzare determinati passaggi), è stato un costante disturbo visivo, un elemento estraneo alla poetica drammatica e visionaria di chi gli stava accanto. A supportare i due, troviamo ragazzi giovanissimi e visibilmente alle prime armi (rispettivamente batterista, chitarrista e secondo tastierista, chi con il look da rocker, chi con quello da nerd). Completano il quadro non edificante un non bel violinista (tanto preso dalla musica che per tutto il concerto si prodigherà in espressioni facciali fra il patetico e lo sconcertante, tanto imbarazzanti che più volte ho dovuto sforzarmi di non guardarlo) ed un secchione diviso fra tastiere e laptop che da un punto di vista sonoro reggeva tutta la baracca, a tratti gesticolando a mo' di direttore d'orchestra. Insomma, il solito carrozzone di personaggi sconclusionati che è solito portarsi dietro Tibet, tanto che viene quasi il sospetto che il suo vero lavoro sia l'assistente sociale.
Ma passiamo alla musica: i Nostri riproporranno per intero l'album "Create Christ, Sailor Boy", senza sorprese né manifestazioni di generosità visto che il set durerà poco più di un'ora. Il problema è tuttavia un altro. Non è la prima volta che vedo dal vivo Tibet, e la sensazione è sempre la solita: non delusione, ma l'impressione che il Nostro non sappia ricreare le emozioni che generalmente dispensa su disco. E questo non per carenze tecniche (tanto è stonato anche su disco), ma per un qualcosa che non capisco e che lo zavorra a terra e non lo fa decollare come ci si aspetterebbe. Eppure il sottofondo a base di robuste orchestrazioni e i vezzi cosmico-psichedelici, l'interno gotico della chiesa, le luci blu, tutto questo dovrebbe essere l'acquario ideale per un poeta che basa tutto sulle parole come lui e con le qualità del predicatore invasato quale è, eppure anche questa volta qualcosa non va. Qualche "scossa" c'è stata qua e là, ma dopo un po' l'approccio del crescendo ha principiato a tediarmi, perché alzare la voce e prolungare le sillabe diviene ripetitivo per un non-cantante come Tibet, sopratutto se questo salire e scendere si spalma lungo uno schema prevedibile che ha previsto la pedissequa alternanza fra brano-intimo-ed-evocativo e brano incalzante-e-psichedelico. Agitarsi, fingere attacchi epilettici non basta a risollevare una situazione in cui ognuno dei bislacchi personaggi presenti sul palco si muove e gesticola come gli pare e la "dimensione mistica", nel complesso, non viene mai penetrata.
E così, a parte il primo brano (perché è sempre emozionante udire i primi vocalizzi di Tibet), l'apice si ha praticamente alla fine, nell'ultimo crescendo in cui il Nostro ha ripetuto il titolo dell'album in modo ossessivo (ma c'è forse qualcosa che egli non ripete in modo ossessivo?). Non si ha dunque il tempo di esaltarsi che tutto finisce. Tibet rimette i suoi appunti nella borsina di stoffa, un saluto pro-forma al pubblico, un abbraccio pro-forma a Youth e scompare dietro le quinte, seguito dagli altri suonatori. La musica che riparte in filodiffusione annienta ogni speranza su un eventuale ritorno: manco i bis. Del resto Tibet non è artista convenzionale, ma per questo ci aspettiamo di più da lui. Ci aspettiamo magia, e in questo si può dire che la "Corrente" è stata intermittente. Ma più che altro gli rimproveriamo il fatto che se continua a circondarsi di musicisti nuovi, di diversa estrazione, provenienza ed età, costretti ogni volta ad improvvisare, la sua musica dal vivo non avrà mai quella coesione, e dunque quello forza, che anzi dovrebbe acquistare doppiamente, essendo il contatto fra lui e il pubblico senza più mediazioni. Mi viene forse il dubbio che Tibet non abbia tutte queste capacità da sciamano (perché il carisma non si appanna con la vecchiaia - e ce lo dimostra ancora Peter Hammill alla veneranda età di sessantasette anni!). E il sospetto che oggi, nonostante la maggiore "popolarità" rispetto al passato, egli sia un artista stanco e sostanzialmente scarico di energie.
Non mi scoraggio, e il giorno dopo, domenica 23 ottobre, mi presento all'Our Black Heart per fare visita ai Blood Axis. Trattasi di un microscopico locale (il più piccolo che abbia mai visto in vita mia), collocato al piano di sopra di un pub niente male che mette musica rock assai vibrante (e poi il barista con la maglietta dei Dissection ci piace). Appena entrato nel locale mi rendo conto che se anche fossi nella posizione più lontana dal palco, ossia a ridosso del bancone del bar, sarei comunque più vicino al palco di quanto lo sia stato in tanti altri concerti a cui sono andato. Mi posiziono quindi in prima fila perché voglio esagerare, tanto saremo in trenta. La popolazione è ancora dark, ma il numero dei casi umani è cresciuto esponenzialmente, mentre la porzione rimanente è spartita fra personaggi di estrema destra e gente che dai pearcing, dai tatuaggi e dal taglio dei capelli capisco che non è dark solo nel weekend (e non è detto che le tre categorie non vedano delle meste intersezioni). Poi ci siamo io e Ian Read (si, quello dei Fire + Ice), che è in un angolo che chiacchiera allegramente con MIchael Moynihan, patron dell'Asse (magie di Londra!). La gente è di dimensioni strane, o più piccola o più grande, e un po' mi sento a disagio.
Attaccano i Naevus (che pure avevo già visto), ma Lloyd James baratta la sua "acustica solitudine" con una band vera e propria che fa recuperare alla sua musica on stage quelle componenti rock e post-punk che i suoi dischi possiedono. Non male, ma non siamo qui per lui.
Dato lo spazio limitato, stasera avremo i Blood Axis in versione ristretta, senza quei turnisti che altre volte li hanno accompagnati per rafforzare la potenza del loro suono. Io sono talmente vicino al palco che posso vedere la scaletta dei brani ai piedi di Moynihan: il programma è buono e tutta la scarna discografia dei Nostri verrà degnamente rappresentata, con occhio di riguardo per il repertorio folk, da tempo adottato come forma di espressione artistica privilegiata. Verso la fine vedo che sarà prevista la riproposizione di "Seeker" dei Fire + Ice, e così penso (ingenuamente): "Visto che c'è Ian Read fra il pubblico, sicuramente la suoneranno insieme a lui". Macché, Ian Read non si farà vivo, ed è un peccato, perché sarebbe stato un tocco di sale su una performance un po' scialba.
Il problema è infatti proprio il seguente: il folk apocalittico ha forti risvolti concettuali, ma musicalmente è un genere povero, semplice e minimale, che non abbisogna di scenografie o chissà quali musicisti. Teoricamente basta un tale con una chitarra acustica in mano. Per questo motivo esso deve cercare di dare il massimo quanto ad espressività e convinzione. Si parla del resto di gente navigata che è nell'ambiente da anni e che certi trucchetti dovrebbe conoscerli. I tre invece sembrano fottersene, non si capisce se per menefreghismo o per limiti di comprendonio. A guardarli bene, forse la seconda: Annabel Lee sembra una professoressa di musica delle medie agghindata per il giorno di festa (per carità, simpatica e dispensatrice di sorrisi), mentre a Robert Ferbrache, imbolsito, accasciato su una sedia, naso aquilino ed occhi da rintronato, sembra che non tocchi nemmeno a lui. Moynihan, quanto a imponenza scenica, si difende ancora bene, ma non dev'essere facile per lui muoversi con pathos in un metro quadrato di palco e cantare con le teste degli spettatori a mezzo metro di distanza dal suo naso, cosicché si vede costretto a declamare i suoi versi fissando un punto imprecisato nel vuoto sopra di sè. L'acustica è all'altezza del locale, il volume assai basso, il pubblico assai dormiente: mi sento francamente di sostenere che ai tempi del liceo, durante le varie occupazioni, ho visto concerti più intensi e meglio allestiti. Da segnalare comunque la forte partecipazione del pubblico in occasione di "Wir Rufen deine Wolfe", durante la quale la gente batterà le mani e salterà come se fosse all'Oktober Fest: un momento divertente, ma anche un po' patetico, come se anche nel cuore di tutti questi "cattivoni" pompasse un'energia vitale volta al canto ed alla danza.
A parte questo frangente, tutto procede senza particolare clamore, i brani sono eseguiti con onestà ma senza slancio, nemmeno quelli più storici e legati a dinamiche post-punk: in casi come "Eternal Soul", "Reign I Forever" e "Storm of Steel" si imbraccia la chitarra elettrica e si usano basi pre-registrate, che però provocano uno sgradevole effetto karaoke. Ma la cosa che più mi fa incazzare è che al penultimo brano (nel frattempo continuavo a tenere d'occhio la scaletta), noto che Moynihan dice qualcosa ai suoi colleghi: "Magari - penso ancora, ingenuamente - si prospetta un fuori programma, i Nostri ci fanno il sorpresone!". Ed invece, saltando a piè pari la prevista "The Hangman and the Papist", i tre decidono di tagliare il set e procedere immediatamente con la conclusiva "Walked in Line". Capisco che suonare di fronte a trenta stronzi non sia il massimo della gratificazione, dopo quasi trent'anni di carriera, ma del resto è anche la via che i tre si sono scelti decidendo di essere i Blood Axis! Come contentino viene eseguita per la seconda volta "Eternal Soul", scelta che francamente non capisco e che aggiunge ulteriori perplessità nei confronti di una esibizione non certo memorabile.
Conclusioni: si è parlato di artisti che hanno scelto una via elitaria che li ha allontanati da ogni possibile compromesso, artistico e commerciale. Ciò tuttavia non giustifica una gestione così dilettantesca ed approssimativa delle proprie comparsate dal vivo, quando si dovrebbe essere, dall'alto di un'esperienza pluriennale, pienamente padroni del proprio mestiere, per quanto sporco questo mestiere possa essere: laddove non si dispone di grandi mezzi, deve subentrare la più grande devozione, alla propria arte ed al proprio pubblico. Questa energia, chiamiamola anche "magia", non si è sentita. Se posso tracciare un parallelo azzardato, mi sento di tirare in ballo l'entità (anch'essa indubbiamente apocalittica) Wovenhand, che in molti avvicinano al mondo del neo-folk (pur non azzeccandoci nulla) e che ho avuto la fortuna di vedere dal vivo sempre in questo (apocalittico) ottobre: tutta un'altra musica, gente, li sì che il "flusso", chiamiamolo anche "Corrente", si è sentito. David Eugene Edwards non è solo un eccelso musicista, ma ha l'imponenza scenica e qualità sciamaniche di rara intensità che hanno calamitato l'attenzione di tutti su ogni sua singola parola, su ogni suo singolo gesto, supportato ovviamente da una band con i controcazzi. E certamente (ma questa non è una colpa) si è aiutato con il mestiere, visto che l'età avanza anche per lui. A volte basta poco per esaltare gente disposta ad esaltarsi, e tutti i fan delle band di cui abbiamo parlato oggi lo sono.
Conscio di questa nuova verità, abbandono di soppiatto il condominio del folk apocalittico (voi ci credete?), rimanendo in contatto solo con i Rome, che peraltro non suonano nemmeno più folk apocalittico...
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