Uscito nel 1984, "Nada!" può essere considerato a tutti gli effetti il vero primo album dei Death in June, l'opera in cui emergono in forma esplicita e completa i tratti distintivi che caratterizzeranno la poetica della Morte in Giugno di tutta la produzione successiva. Qui di fatto germogliano e sbocciano intuizioni solo abbozzate nel precedente "The Guilty has no Pride", certamente un buon esordio, ma indubbiamente ancora troppo ancorato a certi stilemi propri della scena post-punk/dark di inizio anni ottanta (qualcuno ha detto Joy Division?).
Perso per la strada Tony Wakeford (che fonderà gli altrettanto seminali Sol Invictus, altra colonna portante del folk apocalittico), e con lui la furia punk degli esordi, il progetto passa sotto la direzione artistica di Douglas Pearce, che rilegge la musica della Morte in Giugno in un ottica più intimistica e spirituale. Ad affiancarlo, troviamo ancora il fondamentale Patrick Leagas, che io reputo un personaggio davvero carismatico e troppo spesso sottovalutato: batterista d'immane potenza (si vada a vedere le testimonianze filmate delle loro prime apparizioni dal vivo), nonché valido cantante e provvidenziale trombettista, ha secondo me contribuito non poco ad edificare la componente marziale e mitteleuropea dei Death in June, aspetto che, almeno inizialmente, li ha aiutati ad emergere e distinguersi dal resto della scena. E la sua impronta si fa certo sentire in questo "Nada!", che costituisce anche l'ultimo album dei Death in June come gruppo.
L'opera, forse la più varia ed eclettica dell'intera produzione firmata Death in June, riluce di fatto delle personalità contrastanti dei suoi due autori, l'uno introverso, l'altro esuberante: da un lato Douglas mette a punto la sua ballata acustica ed intimistica, che diverrà successivamente un vero trend e il marchio di fabbrica del gruppo; dall'altro troviamo tracce industrial dal forte elemento percussivo, dove certamente ha molto influito l'apporto di Leagas. L'intero album sembra giocare sul contrasto di queste due componenti, non ci stupiamo, quindi, di trovare l'una accanto all'altra due canzoni come la bellissima e struggente "The Honour of Silence" (un vero inno alla solitudine, che con il suo incedere acustico e con il suo canto sofferto e rassegnato, porta in sé tutti gli elementi della filosofia Death in June a venire), e l'incalzante "The Calling" (caratterizzata dai ritmi danzerecci di una agguerrita drum-machine e dal vocione baritonale di Leagas in pieno stile Bauhaus). E proseguendo nell'ascolto capiterà frequentemente d'imbattersi in una gamma di sonorità decisamente variegata: dal canto dolente di una tromba al fragore delle percussioni militari, dai malinconici tappeti tastieristici al pulsare dell'elettronica minimale, il tutto calato in un quadro pessimista e paranoico, in cui risultano determinanti l'eredità dell'industrial inglese di fine anni settanta (un nome su tutti: Throbbing Gristle) e l'influenza di una certa wave elettronica di inizio decade. Da non tralasciare una lieve attitudine rumoristica che può ricordare certe cose dei primi Einsturzende Neubauten.
"Nada!" rappresenta quindi una fase di transizione, un laboratorio in cui si tenta di mettere a fuoco la propria identità, una sorta di brainstorming in cui si passano in rassegna i più disparati veicoli espressivi. Ma è proprio l'assenza di un vincolo formale che conferisce a questa opera una intrinseca freschezza, una forza prorompente e un senso di libertà che forse non troveremo nella produzione successiva del progetto (che progressivamente si cristallizzerà in una forma ben definita, fino a sconfinare nel manierismo vero e proprio degli ultimi lavori). Non a caso c'imbattiamo nei frutti migliori, nei classici assoluti del repertorio, sia dal versante acustico, come le brevi e morriconiane (per l'incedere epico) "Leper Lord" e "Behind the Rose (Fields of Rape)" o la trascinante "She Said Destroid", (un vero anthem da cantare a squarciagola), sia da quello industrial/noise come la percussiva e declamante "C'est a Reve", riproposta tutt'oggi in sede live, o la tristissima "Crush my Love".
A fare la differenza è la fortissima e complessa personalità di Douglas P., capace di ammantare di tinte inedite l'immaginario dark dell'epoca, fagocitandone gli elementi e rileggendoli alla sua maniera, non senza una buona dose di ironia e senso dell'assurdo, trasformandolo in qualcosa di diverso ed originalissimo, un modo di intendere la musica che, pur nella sua estrema semplicità, nessuno è stato in grado di eguagliare. Ma non è solo l'innegabile talento dell'artista a conferire unità al tutto, i vari elementi di fatto trovano coerenza ed omogeneità nell'atmosfera tesa e marziale che pervade l'intero lavoro, una strana miscela di rabbia ed impotenza, lotta e rassegnazione, sconfitta e onore, tragedia e disincanto, senso della fine imminente e nostalgia per un passato irrecuperabile. Qui si cantano e piangono le sorti della vecchia e gloriosa Europa, una terra oramai in decadenza che sta perdendo la propria identità ed il proprio ruolo guida, i cui valori vivono un momento di disgregazione, offuscati dall'inutilità, dall'ignoranza, dalla superficialità, dalla viltà imperanti in una società di massa e consumistica quale è quella in cui viviamo, dominata da un sistema economico che punta proprio all'appiattimento intellettuale, all'omogeneizzazione e al livellamento degli individui che ne fanno parte.
Da qui lo smarrimento ed il senso di impotenza, da qui l'adozione dell'iconografia bellica come veicolo espressivo per estrinsecare e mascherare le nevrosi e il disagio esistenziale dell'artista, e al tempo stesso come simbolo della necessità della lotta (in senso Nietzscheano), quale monito a non arrendersi nonostante la fine sia inevitabile. Pena la fine dell'Uomo. Temi e umori, questi, che diverranno il tratto distintivo del gruppo e che troveremo meglio concettualizzati negli episodi successivi ed in particolare in quel Brown Book che verrà celebrato come il manifesto del folk apocalittico.
Che dire, secondo il modesto parere del sottoscritto ci troviamo innanzi al capolavoro assoluto della Morte in Giugno (per lo meno per quanto riguarda la prima era), l'anno zero del folk apocalittico, un vero must per chiunque si voglia avvicinare per la prima volta al gruppo e al genere intero. Il fatto poi che i riferimenti destroidi non siano in questa sede troppo invadenti, rende il piatto appetibile anche per tutti coloro che hanno da sempre mal digerito un'attitudine di questo tipo.
In una parola: da avere.
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