Il mini album "Operation Hummingbird", uscito nel 2000, costituisce la degna appendice di quel "Take Care and Control" che due anni prima aveva inaugurato la nuova (quarta?) fase artistica dei Death in June: il folk di album come "But, What Ends When the Symbols Shatter?" e "Rose Clouds of Holocaust" pare essere oramai un lontano ricordo, mentre della musica dei Death in June rimangono solamente gli umori apocalittici e la psiche disturbata di Douglas P.

Il compagno di viaggio di Pearce è ancora Albin Julius, mente del progetto post-industrial Der Blutharsch: la registrazione di un album ("Take Care and Control", appunto) ed un tour affrontato assieme hanno evidentemente giovato ai due, affiatati e compatti come non mai.

In questa breve ma significativa opera (solo 28 minuti la durata complessiva!) i Nostri hanno modo di affinare ed amalgamare, nella forma e nella sostanza, quanto era stato allestito nel fosco predecessore. E quello che stringiamo fra le mani è certamente l'episodio più anomalo dell'intero cammino della Morte in Giugno, quasi che a tratti pare di ascoltare un album dei Blutharsch!

L'esplosiva opener "Gorilla Tactics" è per esempio la cosa meno Death in June che i Death in June abbiano mai concepito nella loro lungimirante carriera: drum-machine sparata, campionamenti esplosivi, vocalizzi impalpabili per nemmeno due minuti di bile e veleno in cui il Douglas P. se la prende con quelle "teste a cucù" degli svizzeri, rei di aver boicottato, due anni prima a Losanna, un concerto dei Death in June (un capannello di manifestanti impedì alla band di esibirsi, e proprio a loro è dedicato il brano che, pregno del proverbiale sarcasmo di Pearce, recita: "Their banks are filled with nazi gold, but Death in June's banned, I've been told").

E devo dire, almeno questa è la mia impressione, che il disappunto che può originare dagli umori destroidi che si respirano a pieni polmoni lungo l'intero corso dell'album si ritroverà ben presto ad essere rimpiazzato dall'entusiasmo che scaturisce dal talento dei due artisti e dalla innegabile forza espressiva della loro rappresentazione.

"Operation Hummingbird" è in realtà il capolavoro formale di Julius, all'apice della sua ispirazione come manipolatore ed assemblatore di suoni, mai così attento e chirurgico nella sua opera di macelleria industriale (una perfezione che non ritroveremo neanche nei suoi Blutharsch): suoni perfetti, dotte stratificazioni, composizioni dinamiche e variegate. Ed è proprio alla perizia di Julius che dobbiamo la buona riuscita di un album in cui Douglas P., sempre più a corto di idee e decisamente svogliato nel portare avanti il suo discorso (probabilmente giunto a capolinea), preferisce sedere in cabina di regia: la sua voce e le sue angoscianti visioni saranno l'unico anello di congiunzione con il passato della band.

Sette gioielli incastonati in un mosaico compatto e rigoroso, una macchina perfetta dove sono la cura certosina del dettaglio, l'equilibrio e la tempistica con cui vengono collocati gli elementi a fare la differenza; come se il caos psichico di un album come "Wall of Sacrifice" venisse vivisezionato e trasposto in un insieme ordinato e dal rigore inattaccabile: un industrial catastrofico ed insieme onirico, percorso da una tensione sottocutanea destinata a rimanere latente.

Toni da esaurimento nervoso, la fermezza che argina tutto, la follia ribollente che il tutto ispira: l'indignazione di Pearce è un sussurro appena accennato, a gridare sono piuttosto le orchestrazioni impetuose, i cori apocalittici, lo stridore delle macchine e dei loop industriali. Civiltà che crollano, imperi che franano, ere che si dissolvono nella polvere del tempo e nella vacuità del tutto: il mondo interiore di Pearce, l'amarezza e le sue slabbrature emotive si traducono in scenari apocalittici d'inusitata violenza, inni plumbei ("Kapitulation"), cantici solenni e tragici ("Hand Grenades and Olympic Flames"), sprazzi di ironico distacco ("Let the Wind Catch a Rainbow on Fire").

Un affresco dalle mille sfumature che riesce a coniugare passato e futuro, fascino arcano ed oscuri presagi: un monumento tirato a lucido in cui convivono il gelo delle macchine, l'appassionata processione di orchestre sminuzzate e distorte, le ombre lunghe di un rituale perverso che serpeggia inquieto fra le macerie.

Troppo complessa la materia emotiva di Douglas P. per essere descritta a parole: questo piccolo-grande album, lungi dal rappresentare un episodio secondario nella vasta produzione artistica della Morte in Giugno, va ascoltato con estrema attenzione e dedizione.

Inchiniamoci ancora una volta (l'ultima?) innanzi al Re del Folk Apocalittico!

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