Non nego che ogni uscita dei Death in June è per me un vero sussulto, anche se è da 2/3 uscite a quesa parte che non nutro grandi aspettative per l'operato di Douglas P.

Per l'amor di Dio, un album dei Death in June me lo faccio sempre piacere, e quindi finisce sistematicamente per piacermi, ma poi giunge il momento dell'onestà, ed al di là della passione del fan irriducibile, c'è da ammettere che oramai è dai tempi dell'accoppiata “Take Care and Control”/”Operation: Hummingbird” che Douglas P. non è in grado di pubblicare qualcosa di convincente.

Pianoforte. Voce.

Il fatto che l'ultimo album dei Death in June nasca dalla collaborazione con il pianista slovacco Miro Snejdr è una novità, almeno sulla carta, che non va certo sottovalutata: la cosa stuzzica una certa curiosità, infatti, e, conoscendo lo stato di cattiva salute in cui versa Douglas P. da qualche anno a questa parte, la scelta può sembrare saggia, soprattutto dopo l'accelerazione “isolazionista” del lavoro precedente, quel “The Rule of Thirds” che era stato salutato come un ritorno al glorioso passato, ma che invece strisciò fuori come un pallido fantasma. Onesto, ma inconsistente.

Cambia la pelle, quindi, ma non la sostanza, poiché se mettessimo la vecchia chitarrina al posto del pianoforte, il risultato non cambierebbe molto. Questo perché, più che una collaborazione vera e propria (visto che non vi è stato un reale scambio/interazione fra i due artisti, ma un semplice rimpallo a distanza del materiale fra Adelaide e Bratislava), l'apporto di un musicista come Miro Snejder è servito solamente a dare una nuova veste a dei brani che sembrano uscire dalle sessioni di “The Rule of Thirds” (medesima la scrittura, medesimi gli umori, medesime le idee, medesimi i ritornelli pallosi).

Di questo troviamo conferma nel metodo di lavoro che ha portato alla pubblicazione di “Peaceful Snow”: leggenda vuole che Pearce abbia infatti conosciuto Miro Snejdr attraverso la rete, colpito da un video visto su Youtube che catturava una re-interpretazione pianistica di “The Glass Coffin” da parte dello stesso pianista. Presi i contatti, il Nostro non ha fatto che consegnare allo slovacco un malloppo di brani concepiti per voce e chitarra, brani che il pianista ha sapientemente rimaneggiato e con devozione riarrangiato, per poi riconsegnarli al diretto proprietario, che infine non ha fatto altro che metterci sopra la voce, dei cori e qualche effetto (poca roba, a dir la verità).

La performance di Snejdr è ineccepibile, il suo scorrere sui tasti d'avorio è pregevole: classe, eleganza e talento sono innegabili; a non convincere è la sostanza dei brani, che spesso faticano a conciliare il vistuosismo pianistico (fra jazz e classica) con lo scarno recitato di Pearce, come se vi fosse una stordente frattura fra l'impianto “barocco”, allegro, e il minimalismo vocale (e in questo è eloquente la mediocre apertura dell'album affidata all'incolore “Murder Made History”).

Con il secondo brano, la minimale “Fire Feast”, le cose migliorano un poco, ma scorrendo le tracce, è inevitabile percepire la medesima stanchezza compositiva che aveva penalizzato il predecessore. E se quindi “The Rule of Thirds” poteva essere definito come l'album della senilità per Douglas P., questo lavoro del 2010 sembra essere l'album del suo definitivo trapasso: Pearce passeggia in una necropoli di ghiaccio, ove si possono incontrare fantasmi, persone scomparse (la figura del padre, per esempio) e perfino cadaveri. E fra questi pare scorgere il cadavere stesso di Pearce, che, già in uno stato di putrefazione avanzata, sembra volerci parlare di un passato, di un mondo che percepisce con abissale e definitivo distacco. Pearce però si avvia verso l'Aldilà con passo da gentlemen, questo gli va riconosciuto: i ricordi hanno preso ormai il posto della pura e semplice ed amara constatazione di un presente che non gli appartiene più. Dal suo bunker austrialiano Pearce ci racconta il suo stato di isolamento attraverso i suoi bei consueti testi, pervasi da un cinismo e da un sarcasmo che non sanno più di bile, ma di una arrendevolezza ad uno stato delle cose talmente “precipitato” che non rimane altro che riderci sopra. Tanto vale allora passeggiare per questi gironi fischiettando e cantando “pa pa paaaa”, cosa che accade puntualmente in “Life Under Siege”. E se in generale è più semplice scrivere un libro di ricette con il sangue, paradossalmente Pearce riesce nell'impresa di incidere un epitaffio con il miele, un po' come era successo (con ben altri risultati) in certi episodi di “Rose Clouds of Holocaust”.

Ma attenzione: lo squarcio esistenziale che apre un album come “Peaceful Snow” è nonostante tutto più profondo di quanto qualsiasi altro discepolo all'interno del folk apocalittico si possa oggi permettere. Tanto che oramai non ha più senso parlare di folk apocalittico (“Peaceful Snow” non è un album di folk apocalittico), ma di musica pearciana allo stato puro, decadenza che non decade più, ma che è decaduta. Deceduta. Definitivamente andata in pezzi.

Se è vero il motto “It is the fate of our age that we fight in isolation”, Pearce rimane il più coerente paladino dei nostri tempi. E nel chiuso del suo bunker, l'esilio che si è auto-inflitto nella neutrale Australia, il muro del sacrificio eretto e portato all'eccesso, Pearce ne ha avuto e ne ha tutt'ora di tempo per pensare: un pensiero che si riflette su se stesso, che non può che stagnare per mancanza di stimoli se non la propria interiorità. Una riflessione che non può che degenerare in auto-referenzialità. Che può anche significare il nulla artistico, ma se Pearce ha perso la capacità di tradurre il suo disagio in vera arte, questo non significa che il suo percorso esistenziale si sia arrestato. E nella sua condizione esistenziale questo cambattere in isolamento può significare molte cose: la perdita del senso del tempo, per esempio, tanto che i minuti diventano mesi, e i mesi anni, tanto che Pearce sembra aver percorso nella propria solitudine millenni interi, eroso intere ere geologiche, e forse il tutto ci sembra così incomprensibile proprio perché Pearce si trova oggi milioni di anni avanti a noi. Ancora più lontano da tutto, ancora più lontano da tutti noi.

Ma il bunker in cui si è rinchiuso Pearce diviene purtroppo un sepolcro da cui non si può risorgere. E questo è un peccato, poiché è la dimostrazione che Pearce è morto prima ancora come Uomo che come Artista. Probabilmente la sua svogliatezza nel rivestire il secondo ruolo deriva direttamente da quella nel ricoprire il primo. E se la sua musica non brilla più è perchè le fratture di un tempo non sono più così laceranti come in passato, ma sono ricoperte, ostruite da impenetrabili strati di ghiaccio invincibile.

“Peaceful Snow” è dunque un album gelido, una piatta distesa innevata, senza alberi né abitazioni: un percorso negli abissi dell'interiorità che si fregia di atmosfere glaciali e suggestive (le atmosfere, ahimé, meglio dei brani); e se “The Rules of Third” era un lavoro primaverile, qua possiamo sostenere di trovarci in un desolante inverno dell'anima, dove strade non più battute sono ricoperte da uno spesso manto di neve. Da sotto la neve, Pearce ci canta il suo inferno: non più una condizione di tragedia esistenziale, bensì una condizione piatta, asettica, priva di una qualsiasi speranza che possa illuminare il cammino.

A conti fatti il risultato finisce tuttavia per apparire discontinuo (soporifero, ad esempio, il susseguirsi di brani come “Wolf Rose” e “The Scents of Genocide”). I guizzi tuttavia non mancano: è il caso della title-track (d'intensità caveiana), dalla quale sembra sgorgare l'opera intera. O da altri, sporadici episodi (“A Nausea”, “Red Odin Day”, “My Company of Corpses”) che riescono ancora a dare l'antico brivido, ma che non risollevano un album sostanzialmente prolisso, come lo era stato “The Rule of Thirds”, che rimane l'ultimo fragile anello di contatto fra il glorioso folk apocalittico che fu, e questa sorta di svolta cantautoriale in cui si è lanciato defintivamente Pearce, grottesco come un palombaro che balla a rallentatore durante una gara di liscio: un percorso per certi aspetti surreale, sempre più vicino ad un diario personale che racconta verità terribili in uno stile dimesso e sornione, che a tratti si macchia di una disperata spensieratezza.

Un diario che sbiadisce mano a mano che procede, ma che ci offre un'ultima buona pagina, quella “The Maverick Chamber”, tragico ed imponente ballatone pianistico, che aveva anticipato l'uscita dell'album nell'omonimo sette pollici, generando aspettative che in buona parte sono andate disattese.

P.S. A fare da appendice all'opera, troviamo un secondo cd interamente strumentale (“Lounge Corps”) che ci propone versioni per solo piano di classici dei Death in June, pescati un po' da tutti gli album della band, senza trascurare nemmeno lo stesso “The Rule of Thirds”, tramite il quale Miro Snedjr, fan dell'ultima ora, sembra aver conosciuto la Morte in Giugno. Un esperimento simpatico, se volete, ma che finisce per non apportare alcun valore aggiunto al pacchetto, soprattutto se si tiene conto dell'importanza che i testi hanno sempre ricoperto nella musica della Morte in Giugno.

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