Album difficile da valutare, questo "Rose Clouds of Holocaust". Riprendendo pari pari le sonorità del bellissimo "But, What Ends When the Symbols Shatter?", ma con minore ispirazione, è forse l'album meno innovativo e sorprendente della variegata produzione discografica dei Death in June. Per molti si è trattato di una piacevole conferma. Per altri della stanca riproposizione di una formula già collaudata. Per altri ancora questo album rappresenta un primo segnale dell'imminente tramonto artistico di Douglas P. , oramai sempre più intrappolato nella gabbia dei cliché da lui stesso forgiati.
Per il sottoscritto, questo album è forse l'incarnazione più sincera e spontanea dell'arte di Douglas P.
Nel 1995, anno di uscita di questo album, il Nostro sembra essersi definitivamente lasciato alle spalle i tempi bui del periodo post "Wall of Sacrifice". "But, What Ends… ", nel 1992, ci aveva consegnato un artista completamente rimesso a nuovo, forte di una nuova consapevolezza, di sé e della realtà circostante. Molti nodi sembravano essere stati sciolti, e questo processo di risoluzione si era rispecchiato nei toni surreali e nell'atteggiamento di disincantato distacco che avevano caratterizzato quell'album.
Una volta trasferitosi in pianta stabile in Australia, Douglas P. sembra aver trovato un nuovo equilibrio. E se da sempre il mondo dell'arte ci ha regalato i frutti migliori laddove si trovino sofferenza, rabbia, frustrazione e nevrosi, "Rose Clouds of Holocaust" ha il pregio di farsi apprezzare pur costituendo la testimonianza di un periodo relativamente sereno per il Nostro. Ed è proprio questo aspetto, forse, a fare più paura: pur nella sua versione più tranquilla e rilassata, un artista come Douglas P. risulta essere ben più estremo di molti altri che, all'apparenza più cattivi, fanno dei loro ostentato nichilismo non altro che una posa.
Sempre più lontano dall'annebbiamento e dal caos psichico che avevano caratterizzato la produzione degli anni ottanta, ancora più distante dal mondo e dalle sue vicissitudini di quanto lo fosse stato in "But, What Ends… ", il Douglas P. di "Rose Clouds of Holocaust" è semplicemente un uomo che imbraccia la chitarra e ci canta le sue canzoni. Canzoni che s'impregnano degli umori di un più canonico cantautorato: l'entità Death in June, forte oramai di una identità solida e ben definita, non ha evidentemente più bisogno di esplicitare il proprio messaggio ricorrendo a quegli espedienti che erano stati forgiati proprio per costruire quell'identità. Niente più assalti rumoristici e fanfare militari, quindi: "Rose Clouds of Holocaust", ancor più minimale del suo predecessore, rappresenta la dimensione più evoluta della visione apocalittica di Douglas P. , come se la Fine, dopo essere stata percepita, subita e affrontata, venisse definitivamente accettata. Un punto di vista che non lascia più spazio allo sgomento ma solo alla contemplazione.
L'arte di Douglas P. , quindi, non ci appare più come un esorcismo di fantasmi interiori, ma una lucida disserzione sugli stessi: proprio in virtù dell'equilibrio e della sicurezza conquistati, egli può finalmente voltarsi indietro, guardare con distacco quei fantasmi che l'avevano tanto tormentato, e prenderli finalmente per il collo.
Quello che ne esce è l'album più paradossale dei Death in June: quello musicalmente più innocuo e liricamente più spietato, quello meno apocalittico ed al tempo stesso capace di incarnate la quintessenza del folk apocalittico. Sì, perché oramai Pearce non suona più folk apocalittico, Pearce è il folk apocalittico. E non può essere altrimenti, anche se la sua musica non è più attraversata da quelle lacerazioni esistenziali che in passato avevano dato la spinta necessaria affinché la sua arte sbocciasse e prendesse una forma ben definita. E "Rose Clouds of Holocaust" è un manifesto di fiera indipendenza intellettuale, ed è inquietante notare come nella paradigmatica opener "God's Golden Sperm" si vengano ad accostare oscuri versi blasfemi a quella che probabilmente è la melodia più smielata mai comparsa in un disco dei Death in June. E in questo contrasto sta l'essenza dell'opera.
L'album si compone di un intro ("Lord Winter") e nove pumblee ballate in tipico stile Death in June. Tutto molto essenziale, come si sarà capito, ma la magia dell'ascolto sta nelle atmosfere eteree, quasi fantastiche, che conferiscono all'opera un'aura di onirica intangibilità. Brani come la già citata "God's Golden Sperm", "Omen-Filled Season" e "Symbols of the Sun", sono terribilmente semplici eppure si fanno piacere, affascinano, brillano di un inspiegabile magnetismo che non è altrimenti riconducibile se non all'estro dell'artista. La voce dell'amico Tibet fa la sua consueta comparsata in "Jerusalem the Black", senza comunque toccare le vette di intensità che erano state raggiunte in passato. Le cartucce migliori, a mio parere, vengono sparate nella seconda parte dell'album: "Luther's Army" è una bellissima e struggente ballata dai toni crepuscolari, dove emerge il Pearce più appassionato e malinconico. "13 Years of Carrion", altro momento dalla forte suggestione onirica, si fregia del suono tenue della tromba di Campbell Finley, dei gorgheggi eterei di Rose McDowall e dei delicati rintocchi di uno xilofono, e la sensazione è quella si sentirsi cullati come se ci trovassimo a bordo di una barchetta ondeggiante sulla superficie increspata di un placido mare notturno.
La sognante "The Accidental Protégé", imponente nei suoi intrecci fra chitarre, rintocchi di piano e fisarmonica, costituisce certamente uno dei punti più alti della nuova fase della Morte in Giugno, ma il capolavoro assoluto dell'album è la celebre title-track, forse il brano più conosciuto dei Death in June. Questa canzone non solo vale l'acquisto dell'album, questa canzone è la declinazione dell'intero genere: il contrappunto metafisico delle tastiere, lo spietato incalzare di un arpeggio devastante, la voce oscura ed imperiosa di Douglas P. , che davvero sembra parlarci fuori dall'universo. Come al solito Pearce si dimostra maestro nel saper evocare visioni ed emozioni intensissime con il minor sforzo possibile, un artista che in tre minuti e mezzo, e con una semplicità disarmante, è in grado di dire molto, moltissimo, come già era successo con "Fall Apart" (da "Wall of Sacrifice").
Gli oscuri fraseggi ambientali della conclusiva "Lifebooks", in cui il serafico sussurrare di Douglas P. si intreccia con l'irrequieto declamare di Tibet, concludono l'opera al grido di "It's a dream, it's a dream, it's a dream, wake up! wake up!". E' stato tutto un sogno, la voce di Douglas P. si è intrufolata nei recessi del nostro inconscio chissà da quale spiraglio e ci ha trasmesso visioni provenienti da un altro mondo. Le palpebre sbattono irrequiete innanzi alla luce vana del giorno, luce che invece di chiarire abbaglia e confonde le idee. E' l'ora di svegliarsi.
Ma quale è il sogno e quale la realtà?
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