Con "Take Care & Control" ha inizio la parabola discendente del percorso artistico di Douglas P. Si apre di fatto la stagione delle collaborazioni, sintomo di un incipiente calo di ispirazione che caratterizzerà l'ultima fase della carriera della Morte in Giugno. Tuttavia, quel che ne esce fuori, è paradossalmente un lavoro estremamente significativo e di indubbio fascino. Scioccante per chi dalla band (giustamente) si aspetta un sano e salutare folk apocalittico, "Take Care & Control", del 1998, vede il brusco abbandono delle sonorità acustiche che avevano fatto la fortuna della band, e contempla invece la virata ancor più brusca verso un industrial marziale molto distante, in realtà, anche dalle angonscianti e claustrofobiche esplorazioni rumoristiche di inizio carriera.

Douglas Pearce, probabilmente a corto di idee, decide di fatto di richiamare a corte un giovine talentuoso, il viennese Albin Julius, al fine di inniettare un po' di freschezza in seno ad una formula oramai stra-collaudata: Julius, mente del progetto post-industriale Der Blutharsch, non se lo fa ripetere due volte e con amorevole venerazione si prostra ai piedi del suo maestro, mettendogli a disposizione tutto il suo talento. E proprio da questo connubio nasce un album veramente originale, oserei dire unico, e che certamente si assesta una spanna sopra l'intera scena (compresi gli stessi Der Blutharsch). E questo perché, laddove Douglas Pearce palesa segni di evidente stanchezza compositiva, a salvare la situazione è il formidabile background tecnico di Julius, sopraffino assemblatore di suoni e suggestioni. E laddove la musica di Julius suona come una vuota (e fine a se stessa) celebrazione della guerra, ci pensa Douglas P. a ricondurla ad una ben più profonda dimensione esistenziale. Sì, perché nonostante la mano di Julius sia ben presente e riconoscibilissima, "Take Care & Control" suona Death in June al 100%, portando con sé le visioni, i fantasmi e gli umori che da sempre contraddistinguono la musica della Morte in Giugno.

I primi quattro pezzi sono da antologia: "Smashed to Bits (in the Peace of the Night"), con le sue robuste orchestrazioni, è quanto di più epicamente tragico sia uscito da un album dei Death in June, mentre "Little Blue Butterfly", impreziosita da minimali contrappunti etnici, fa emergere nuovamente la mai sopita del tutto componente esoterica della band. Ed è interessante imbattersi, fra l'una e l'altra, nella voce di Jeanne Moreau che intona "Each man kills the things he love", citazione rubata dal film cult di Fassbinder "Querelle de Brest", a sua volta tratto dall'omonimo romanzo di Jean Genet, divenuto poi manifesto underground della cultura gay. Sì, perché "Take Care & Control" è anche l'album dove in parte cade la maschera, dove il Douglas Pearce-uomo si rivela più che in passato, mettendo in bella mostra, fra le altre cose, la sua omosessualità, per altro mai celata (c'è chi, per esempio, vede questo aspetto come fattore determinante nella scelta del monicker "Death in June", che si ispira alla "Notte dei lunghi coltelli", il tristemente noto massacro nazista che fece da preludio all'avvento al potere del partito Nazional-socialista di Hitler, e che vide l'annientamento dell'opposizione interna al partito stesso, nelle cui file militavano diversi omosessuali, la cui presenza nel partito era giudicata inammissibile da Hitler).

La successiva "The Bunker" è invece il manifesto della solitudine, o, meglio ancora, dell'isolamento, e dice in tre minuti e mezzo quello che i Pink Floyd dicono nell'ora e mezza del leggendario "The Wall": anzi, il discorso va nettamente oltre, poiché il concetto unidimensionale di muro viene qui superato dall'idea totalizzante di un involucro, il bunker appunto, che avvolge l'individuo, precludendogli ogni contatto con l'esterno. Una visione che, estesa all'umanità intera ("You're alone, We're alone, They're alone, They're all alone" recitano lo scarne liriche), tratteggia una realtà agghiacciante, in cui il mondo sociale non è altro che un fitto alveare in cui è impossibile ogni tipo di comunicazione e scambio emozionale. Ma questo brano, di uno sconforto disarmante, è inoltre la conferma definitiva dell'abilità di Pearce nel saper declinare gli elementi appartenenti all'immaginario bellico in una dimensione privata ed esistenziale. Con il risultato che un concetto come la solitudine viene ad ammantarsi dei toni cupi e desolanti delle emozioni che ci richiama la catastrofe bellica nella sua più cruda rappresentazione.

"Kameraschaft", unica parentesi acustica, è un altro classico destinato a presenziare a lungo nelle scalette delle esibizioni dal vivo, e ci riporta, non senza nostalgia, ai Death in June più tipicamente folk, anche se per l'occasione un bel po' rincupiti ed aggiornati agli umori inquietanti e minacciosi dell'album.

L'opera prosegue più che dignitosamente, fra citazioni, mestiere e un po' di autocompiacimento, come un saggio metatestuale, in cui i Death in June, ben sapendo di essere i Death in June, parlano dei Death in June. A metterci una toppa è Julius, qui alla sua prova migliore: ammirabile è infatti la sua perizia nell'assemblare in modo vario ed intelligente suoni, orchestrazioni e campionamenti di ogni tipo, che si vanno a sposare perfettamente con la voce e il lavoro di rifinitura di Douglas P. E così, fra i toni soft di "Frost Flowers" e gli assalti percussivi di "A Slaughter of Roses", si giunge agli otto gelidi e desolanti minuti di "The November Men", estenuante saggio sul male di vivere, che si apre simbolicamente con la fiacca sgassata di una motocicletta (di quelle brutte anni trenta con il sidecar, immaginiamo), e che culminerà nelle grida disperate del finale, forse il momento di maggior esplicitazione del dolore nell'intera produzione artistica di Pearce.

Peccato che l'ascoltore, mano a mano che procede, finisca per sentire l'inevitabile stanchezza data dalla eccessiva monotonia dei brani: le costruzioni perfette di "Power Has a Fragrance", "Despair" e "The Odin Hour" fanno certo atmosfera, ma non danno particolari sussulti, e l'album, nel finale, commette un vero e proprio suicidio: Douglas si dilegua e a Julius non resta che citare e autocitarsi: "The Bunker, Empty" è un reprise strumentale della quasi omonima song, significativo quanto volete, ma davvero estenuante posta così alla fine dell'album. "Wolf Angel", invece, è l'assalto di rumore bianco che aveva aperto le danze e che via via è tornato a lesionarci le orecchie, fra un pezzo e l'altro, come tema (tema?) conduttore dell'opera. I cinque minuti di marcetta fascista in loop di "Circo Massimo", infine, potevano anche risparmiarceli.

A molti, probabilmente, questo album non piacerà: per i continui rimandi destroidi è senz'altro l'episodio più estremo, stilisticamente e concettualmente, dei Death in June. Personalmente parlando, devo ammetter che mi ci è voluto un bel po' per digerirlo, ma una volta entrato nel mood richiesto, e tributando il doveroso inchino innanzi al santino di Lenin, prima e dopo ogni ascolto, l'opera si rivela un interessante viaggio attraverso l'estetismo della Morte: Douglas P. non è stato il primo e non sarà certamente l'ultimo a tessere un legame fra Morte e Bello, tuttavia, più di ogni altra, questa opera riluce di una sensualità, di un frizzante erotismo, di un autocompiacimento estetico (ne è un conferma la foto nel booklet interno che ritrae Douglas P. in desabillé, che indossa non altro che un elmetto e un paio di occhiali da sole) ne fanno senz'altro uno dei tentativi più ardui di ricongiungimento fra Eros e Thanatos. Ma non, si badi bene, intorbidendo ed inquinando l'Amore con le incotrollabili pulsioni di Morte (come spesso accade nell'universo rock), bensì andando ad ammantare la Morte stessa della bellezza dell'Amore. E se la guerra preferiamo conoscerla (sempre che sia possibile comprenderla per chi non l'ha vissuta) attraverso le laceranti e profonde pagine di Remarque, quello che ci rimane è l'appassionata difesa dei propri ideali innanzi alla corruzione dilagante.

Quella di Douglas P. è una lezione di integrità, coerenza e ferreo rigore, e le note dei Death in June, qui più che mai, esprimono la necessità di inseguire un ideale di purezza, la forza di resistere e di non piegarsi, l'assunzione delle proprie responsabilità. La scelta della solitudine e della fuga dal mondo, se necessario, a prescindere di quali siano le convinzioni che animano la nostra condotta.

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