E' il giugno dell'anno 1981: Douglas Pearce e Tony Wakeford, entrambi ex Crisis, decidono di dare vita ai Death in June, quella che diverrà l'entita simbolo di un nuovo genere, il folk apocalittico. Ed è curioso osservare che, mentre i Crisis erano stati un gruppo punk di estrema sinistra (la formazione faceva parte della Anti-Nazi League, un'organizzazione del Socialist Workers Party, di cui era membro Wakeford stesso), i Death in June prendono il nome dalla "Notte dei lunghi Coltelli", il tristemente noto massacro nazista che ebbe luogo nella notte fra il 29 e il 30 giugno 1934.

Stranezze della vita.

Sia quel che sia, dal canonico punk incazzato e sovversivo degli esordi, i due decidono di approdare alle oscure ambientazioni di un dark in stile Joy Division. A differenziare la nuova formazione dal marasma di gruppi cloni di Ian Curtis & soci è l'adozione di una insolita iconografia bellica (i componenti indossano divise militari, mentre il Totenkopf, lo stemma di una divisione delle SS, diviene la masquotte ufficiale della band e campeggerà su più di una copertina dei lavori dei Death in June). Alla luce dell'orientamento politico dei defunti Crisis, una scelta di questo tipo è a mio parere da leggersi, almeno in un primo momento, alla stregua di una semplice provocazione. O, ancora più semplicemente, come una via per distinguersi e meglio richiamare l'attenzione di un pubblico sempre più annoiato dai soliti e stra-abusati spauracchi dell'universo dark. (Lo stesso Pearce, più avanti, sosterrà che l'apparato iconografico e l'immaginario che fanno da sfondo alla musica dei Death in June vanno piuttosto interpretati in chiave esoterica, e che pertanto una visione strettamente ideologica diviene inevitabilmente riduttiva, se non fuorviante).

La musica dei Death in June degli esordi, ad ogni modo, non è altro che un onesto post-punk, scarno e rozzo come vuole la tradizione, ma già comunque pervaso dalle atmosfere tragiche che caratterizzeranno la futura produzione artistica della band. Squarciato da una insana attitudine rumoristica (e per certi aspetti riconducibile ad una sottospecie di avanguardismo industriale, sulla falsa riga di quanto combinato dai connazionali Throbbing Gristle), il sound dei Death in June si viene a caratterizzare, in linea con l'apparato iconografico, per le fosche ambientazioni belliche, ed in particolare per il terremotante drumming marziale di Patrick Leagas, che, a mio parere, influirà non poco sulla direzione artistica che di lì a poco intraprenderà il combo inglese. A fare il resto sono il formidabile basso di Wakeford (la vera forza ritimica, ma anche melodica, del trio), e la chitarra marcia del più introspettivo Douglas P. , anche alle percussioni a mano. I tre si avvicenderanno dietro al microfono.

Il mini album "The Guilty Have No Pride", uscito nel 1983 (dopo i singoli "Heaven Street" e "State Laughter"), va a rappresentare il perfetto equilibrio di queste tre personalità, già forti e contrastanti, ma non ancora in grado di sopraffarsi a vicenda. "State Laughter", per esempio, è senz'altro farina del sacco di Leagas, che per l'occasione si cimenta al canto: quel che ne viene fuori, fra deliranti urli di tromba e la solita tracotanza percussiva, è una parentesi di battagliero rumorismo che va ad anticipare l'industrial marziale che si profila dietro l'angolo. Le irruenti "All Alone in Her Nirvana" e "Nothing Changes", di contro, sono riconducibili all'anima rabbiosa e al tempo stesso decadente di Wakeford, che si rende autore di un post-punk catastrofico e parossistico che già fa intravedere la tragica epicità dei suoi Sol Invictus. Ben più interessanti, invece, i brani a firma dello stesso Pearce: l'opener "Till the living Flesh is Burned", paranoica tiritera tribale, è destinata a divenire un classico immortale della band e già appare in grado di rappresentare, per la sua lacerante monotonia e per l'utilizzo di simbologie esoteriche, la poetica dell'artista. "Heaven Street", altro brano celebre e già presente nell'omonimo maxi singolo dell'anno precedente, viene invece qui riproposta in una cupa versione acustica, andando ad anticipare la dimensione folk che diverrà lo standard della band negli anni a venire. Le danze si chiudono all'insegna degli arpeggi desolanti e degli inquieti sussurri della title-track, che lascia intravedere gli scenari che presto verranno percorsi e che troveranno sublime completamento nel trittico "A World That Summer" - "Brown Book" - "The Wall of Sacrifice".

Solo "Nation", claustrofobico strumentale dalle forti reminiscenze wave, sembra saper coniugare le tre anime della band. Un sodalizio, questo, che, come prevedibile, avrà vita piuttosto breve: Wakeford, poco dopo, infatti, lascerà per trovare un più completo sfogo artistico nei suoi Sol Invictus (la leggenda vuole, in realtà, che verrà estromesso dal gruppo per l'iscrizione al National Party, partito di estrema destra, quando in realtà era stato pattuito che i membri della band non avrebbero potuto manifestare pubblicamente il proprio credo politico). Leagas, invece, resisterà fino al mastodontico "Nada!", dopo il quale i Death in June diverranno il veicolo espressivo del solo superstite Douglas P.

Devo dire la verità: a me questo "The Guilty Have No Pride" piace molto. E' certamente un frutto ancora acerbo, ed è innegabile che i veri Death in June debbano ancora emergere in tutta la loro originalità. Ad ogni modo, questi sette pezzi, che segnano l'inizio del tramontare dell'esuberanza di Wakeford e il lento insinuarsi dei fantasmi del più intimistico Pearce, offrono soluzioni vincenti e notevoli spunti di interesse, soprattutto laddove, dietrologie a parte, sono rinvenibili in embrione quei tratti distintivi che renderanno celebre la musica della Morte in Giugno. Le tre stelle, tuttavia, ci stanno tutte, soprattutto per ricordarci che il meglio deve ancora venire…

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