Non è un paese per vecchi...
L'oramai cinquantaduenne Douglas P. torna alla ribalta dopo quattro anni, i quattro anni che hanno seguito l'uscita del controverso "Alarm Agents", scritto a quattro mani con l'inossidabile Boyd Rice: un album interlocutorio che non aveva saputo dare chiare indicazioni in merito ai passi futuri delle Morte in Giugno, né confortare gli animi dei fan innanzi ad un declino artistico a quanto pare inarrestabile.
Si vociferava da tempo, in realtà, di un ritorno in solitudine del buon Pearce, e di un lavoro finalmente epurato dalle discutibili collaborazioni che avevano contaminato il passato recente della Morte in Giugno. Le aspettative (come del resto le paure di una cocente delusione) erano comprensibilmente elevate: album della rinascita o definitiva consacrazione nella merda?
Ho letto molto male di questo "The Rule of Thirds", da molti visto come il peggior episodio di sempre della Morte in Giugno; ho letto brutte cose, brutte perché verosimili e ben ponderate.
Ho perfino pensato di non considerare quest'ultima uscita, ma poi non ce l'ho fatta: ho mandato affanculo molti, Robert Smith, NickCave, Johan Edlund, ma Douglas P. no!, non ce l'ho fatta, non era ancora evidentemente l'ora di abbandonarlo, dovevo necessariamente seguirlo nel declino, fino alla fine, categoricamente.
Mi sono così preparato al peggio.
Ebbene, posso esprimere il mio parere personale? L'umile parere (e per niente obiettivo) di un fan sfegatato dei Death in June? A me questo album non è affatto dispiaciuto: non mi fa certo gridare al miracolo, ma nemmeno mi pare così male e degno di essere demonizzato come si dice in giro.
Ci sono diverse ragioni per farsi piacere "The Rule of Thirds".
Anzitutto è un album sincero, e non solo: è un album irresponsabile, egoista, coraggioso nella sua incuranza di portarsi addosso un marchio così prestigioso; un album avulso dai nostri tempi, estraneo alle mode, alle scene musicali, perfino alle culture e alle sotto-culture che pullulano all'interno della cosiddetta grey area. E' essenzialmente un album figlio di un artista che decide di portare all'eccesso il proprio autismo, frutto di un isolamento prima subito e poi cercato. Pearce ci appare oggi più che mai come un personaggio ridicolo, grottesco, fuori dal mondo, sfasato rispetto alla realtà circostante, un'immagine sfocata (non a caso il titolo dell'album ha a che vedere con una specifica tecnica fotografica), un figuro che dal chiuso del suo bunker scavato nelle rocce della sua terra d'esilio, la remota Australia, dà semplicemente vigore alle proprie visioni, suonando per sé e non per altri, inascoltato forse, frainteso probabilmente, come lo speaker di una trasmissione radiofonica clandestina che percepiamo come un fastidioso borbottio proveniente dalla cassa rotta di una vecchia radio.
"The Rule of Thirds" è così l'insperata e commovente riappropriazione da parte dell'artista della sua creatura, ma anche l'opera della senilità di Douglas P., un'opera che segue inesorabilmente la scia di una parabola artistica discendente che non sembra avere fine. Più ancora che costituire un saggio sulla decadenza di uomo e del suo mondo, "The Rule of Thirds" è decadenza che decade e va pezzi, rinnegando se stessa e trasformandosi in sberleffo, ponendo se stessa in una condizione di autoreferenzialità che sta al di là di ogni giudizio (e di ogni delusione): per molti "The Rule of Thirds" potrà rappresentare la conferma della paralisi artistica di Douglas P., per altri (che come me ben sanno che i Death in June intesi in una certa maniera sono morti nel 1995 e ahimè non torneranno mai più) "The Rule of the Thirds" è l'ennesima testimonianza, personale ed artistica, di un percorso travagliato, del cammino solitario di un uomo che ha fatto di valori come integrità, dignità e assoluta intransigenza verso ogni compromesso i pilastri della propria esistenza artistica.
Da un punto di vista stilistico l'opera in questione segna un netto ritorno alle sonorità folk dei capolavori degli anni novanta, riprendendo il discorso abbandonato proprio con il seminale "Rose Clouds of Holocaust" (ultimo lavoro che non a caso vide Pearce solo con la sua chitarra) e portando ulteriormente avanti il processo di semplificazione e scarnificazione dei suoni, così oltre che probabilmente non è più lecito parlare di folk apocalittico in senso stretto.
Il nuovo parto di Douglas P. si muove piuttosto sulle coordinate di un cantautorato isolazionista come raramente si è sentito negli ultimi anni (tredici ballate di sola voce e chitarra sporadicamente infarcite di dialoghi presumibilmente estrapolati da film). "The Rule of Thirds" è, per certi aspetti, un tuffo nel cantautorato folkeggiante proprio della seconda metà degli anni sessanta, un ritorno alle origini, alla purezza di atmosfere a tratti surreali, a tratti solari, a tratti sentimentali, che ricordano sovente certe composizioni tendenzialmente bucoliche di quei Pink Floyd già orfani di Syd Barrett e non ancora ammorbati dall'ego smisurato di Roger Waters.
Pearce sforna così il disco della domenica mattina, e certo la cosa non dev'essere stata affatto gradita da molti dei suoi sostenitori avvezzi a ben altre ambientazioni.
In realtà questo album del 2008 costituisce un'operazione da tempo prevedibile: quello del definitivo affrancamento da certi cliché con cui è bene lasciare giocare i novellini che oggi popolano la scena. Ma attenzione, l'anima industrial non è del tutto sopita: di certo la ritroviamo ridimensionata ad un ruolo di mero accompagnamento, eppure per chi avrà voglia di drizzare le orecchie sarà possibile imbattersi in una infrastruttura sottocutanea di contrappunti, effetti e manipolazioni sonore che impreziosiscono, senza lederla, l'impostazione acustica dell'album, scarno e minimale certamente, ma non affatto trascurato per quanto riguarda l'allestimento dei suoni.
La vera novità di "The Rule of Thirds" è così il mood generale dell'album, un album solare, tiepido come un soleggiato pomeriggio invernale, percorso da un senso di relax inedito per la Morte in Giugno (se si fa accezione di certi momenti sbarazzini che avevano trovato dimora nel tanto bistrattato "All Pigs Must Die").
Si pensi al terzetto iniziale: alla sorniona opener "The Glass Coffin", accompagnata dal cinguettare degli uccellini, alla pimpante "Forever Loves Decay", animata da un semi-impercettibile pulsare ritmico, all'ottima "Jesus, Junk and Jurisdiction" (uno dei momenti più accattivanti dell'album) aperta da uno strampalato "pa... pa pa paaa", reso goffamente dall'inconfondibile timbro tenorile di Pearce. E come non citare "Idolatry", "Good Mourning Sun", o la stessa title-track (altro episodio riuscito, soprattutto per le inedite soluzioni canore), anthem sessantiani degni dei Simon & Garfunkel più fresconi, naturalmente affogati nella pece più nera e intrappolati in un tragico slow-motion!
A colpire di "The Rule of Thirds" è, in generale, l'effetto straniante che ci restituisce lo stridere di questo folk apparentemente sereno e l'impostazione vocale di Pearce, comunque debitrice della tradizione dark, e della vena inevitabilmente decadente che anima le liriche (molto belle nel complesso, sempre taglienti nella loro amara ironia e devastanti nell'esplicitare quelli che rimangono le ossessioni e i temi tipici della poetica pearciana: il senso di solitudine insanabile, la condizione di perenne esule, l'orgoglio tradito, la contemplazione del declino spirituale imperante, a cui si vanno a congiungere un senso di rassegnazione, nostalgia ed auto-commiserazione legate alla propria condizione biografica).
E' un vero piacere, infine, riassaporare la voce ferma ed imperiosa di Pearce e constatare che il suo carisma vocale è rimasto negli anni intatto: quel monolitico-monumentale scandire sillabe tanto caratteristico da divenire inimitabile, quella voce riverberata, sfocata, come esalante da sotto le macerie di un mondo in rovina, quel distacco che nega un contatto non solo con il mondo terreno, ma anche con l'anima dell'artista stesso (è forse questo l'enorme passo in avanti che compie "The Rule of Thirds"?).
Parole sospese nel vuoto, lontano dall'oggetto come dal soggetto: una voce incapace di far trapelare emozioni, gioia, dolore, ma solo nero sarcasmo, disillusione, l'eco di un malessere oramai sopito ma che ha lasciato dietro di sé le cicatrici.
E' chiaro che Douglas P. se la gioca meglio nel piccolo, dato che quando tira per le lunghe le composizioni mostrano con maggiore evidenza la stanchezza compositiva che regna un po' ovunque. Si fanno apprezzare quindi gioiellini come "The Perfume of Traitors" e "My Last Europa Kiss", tanto brevi quanto intense.
Non mancano tuttavia veri e propri capolavori, ed è un peccato constatare che solo nel suo scorcio finale l'album dia segnali di ripresa. In particolare, a risollevare le sorti di un lavoro altalenante e a tratti inconsistente, sono proprio i due pezzi posti in chiusura, gli unici in grado di evocare il fantasma dei Death in June che furono: "Takeyya", pur non discostandosi molto dagli altri brani, sembra custodire qualcosa di magico, quell'ingrediente indefinibile che ha reso negli anni speciale la musica della Morte in Giugno, a scapito della semplicità e della puerilità esecutiva delle composizioni (da pelle d'oca il balbettare demente che nel finale accompagna il refrain della canzone).
A "Let Go" (unico brano che vede la presenza di un contributo esterno - la chitarra del produttore Dave Lokan) la palma del pezzo più insolito dell'album: una ninna-nanna sognante, impalpabile e dolcissima nel suo incedere, ma capace di gravare come un macigno sul nostro cuore per gli umori da testamento spirituale che sa portare con sé.
Tutta questa serie di argomentazioni non può comunque risollevare più di tanto il giudizio di un album che rimane nel complesso prolisso, faticoso da digerire, cocciuto nel ripresentare allo sfinimento le soluzioni di sempre. Troppi in definitiva i 48 minuti di durata: palese, al termine dell'ascolto, la convinzione che tramite tagli adeguati il tutto ne avrebbe giovato (e mi vengono in mente "Truly Be", "Their Deception" e "My Rhyne Atrocity", pezzi alquanto anonimi di cui si sarebbe potuto fare tranquillamente a meno).
Che dire in conclusione: un album da maneggiare con estrema cautela, un album da cui non v'è aspettarsi grandi cose, un album su cui sdraiarsi senza pretese. E se in sede di recensione devo in definitiva dare un consiglio, il mio consiglio è: non acquistate questo album, se non dopo aver messo in conto un doveroso senso di delusione ed essere comunque passati dai capolavori degli anni ottanta e novanta.
Compratelo, però, se questa primavera vi piglia dentro ed avete voglia di amare. Compratelo se non vi riconoscete in quello che vi circonda, se vi sentite vecchi in questo paese che per vecchi non è ed avete bisogno di una voce amica.
Come spesso è necessario per un fan crescere con l'artista, a volte è necessario invecchiarci insieme. Se non morirgli accanto...
A coffin never forgets a man
A coffin never forgives a man
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