"The World That Summer", uscito nel 1986, prosegue il discorso che era stato intrapreso con il precedente "Nada!". Le idee e le intuizioni che in quell'album avevano costituito un primo affrancamento dal dark degli esordi sembrano qui meglio messe a fuoco ed organizzate, e l'opera segna senz'altro un importante passo in avanti in quel processo di definizione ed edificazione del folk apocalittico, percorso che troverà il suo compimento definitvo nel successivo "Brown Book".

Patrick Leagas non fa più parte dei Death in June, e con lui tutte quei residui wave che erano ancora presenti nel monumentale tomo precedente. Al posto di Leagas troviamo un illustre sostituto, un certo Christ 777, non altri che David Tibet, che già in passato aveva collaborato con la band, partecipando alla stesura di classici immortali come "Leper Lord", "She Said Destroy" e "Behind The Rose (Fields of Rape)". E proprio sotto l'influenza del dark esoterico dei Current 93, sembra nascere questo oscuro ed affascinante capitolo della Morte in Giugno, pregno più che mai dei toni intimistici e delle laceranti ed enigmatiche introspezioni di Douglas Pearce, oramai solo alla guida del progetto, e quindi nelle condizioni di poter esprimere ed assecondare in assoluta libertà le proprie ossessioni ed elucubrazioni esistenziali.

Come era successo in "Nada!", inquieti fraseggi industriali si alternano alle scarne ballate che faranno la fortuna del Nostro. E se da un punto di vista del songwriting le singole composizioni si assestano un gradino sotto all'illustre predecessore, c'è da dire che l'effetto d'insieme non è per niente male: "The World That Summer", certamente meno ispirato di "Nada!", va infatti a guadagnare in coerenza concettuale ed atmosfera. Rimangono delle scorie più "canonicamente" dark, e parlo delle struggenti "Torture by Roses" e "Come before Christ and Murder Love", che ripropongono sonorità accostabili, nella loro tetra malinconia, ai Cure di "Faith". Ma nel complesso il soliloquio artistico di Pearce è già orientato nitidamente verso i lidi inquietanti di una desolante e tragica musica colma di pathos e di passione, ma vuota di speranza.

La voce spiritata di Tibet compare qua e là ad arricchire di allucinata isteria un album già di per sé pregno di una follia inesplosa. Con la dipartita di Leagas, l'irruenza marziale delle percussioni viene a stemperarsi, ma la tensione bellica non viene affatto meno: i foschi climi mitteleuropei, gli accenti etnici, gli influssi vagamente mediorientali, vanno a dipingere un mondo cupo e desolato dove non c'è più spazio per la furia iconoclasta e declamatoria del passato, bensì solo per la desolazione che si lasciano dietro la distruzione, la perdita e la sconfitta. Spesso tacciato di propensioni filo-belliche, Douglas P. in realtà attua un'operazione ben più delicata e complessa: il suo è un processo di rilettura-appropriazione-introiezione in cui le macerie e i corpi straziati della guerra vanno a rappresentare le "macerie psichiche" e le lacerazioni insanabili del suo Io disgregato e prossimo a cadere a pezzi. I suoni scarni, i colpi secchi della drum-machine, i minimali contrappunti di tastiera esplicano il baratro esistenziale, il senso del vuoto, la solitudine dell'artista, ancora lontano dal disincantato distacco e dall'amara ironia che caratterizzeranno la fase della sua maturità artistica. Mentre il glaciale battito delle percussioni, le aperture di organo, l'insano rumorismo che fa da sfondo, vanno ad inettare scorci di nero esoterismo nella musica dei Death in June, sancendo l'inizio di quel processo di osmosi fra i due artisti, Douglas e Tibet, che porterà i Death in June verso una dimensione sempre più metafisica e rarefatta, e i Current 93 ad avvicinarsi a sonorità più propriamente folk. Le marziali "Rule Again" e "Blood Victory" costituiscono momenti di malato ritualismo industriale, mentre "Blood of Winter", "Hidden among the Leaves", "Love Murder", "Rocking Horse Night" sono bozzetti sconclusionati, filastrocche che puzzano di catrame, allucinazioni fra il terribile e il surreale, oniriche rappresentazioni di un disagio non ancora concettualizzato ma ben percepito. Il clic riverberato di un'arma che viene caricata, il canto lontano di una donna, il suono stonato di un carillon: a parlare sembra essere più l'inconscio che la sfera razionale, e solo in pochi frangenti, come la laconica "Break the Black Ice", si intravedono la lucidità e il consapevole distacco che caratterizzeranno i Death in June del futuro.

L'apice dell'opera è senz'altro l'estenuante quarto d'ora di "Death of a Man", prima devastante esplorazione nei territori del noise più annichilente e claustrofobico: un escalation di caos magistralmente diretta, in cui ai solenni colpi di gong si vanno ad aggiungere e sovrapporre percussioni, voci (fra le altre, quelle registrate di Mishima e Jenet, autori fondamentali per comprendere il Pearce-pensiero), lontane orchestrazioni e i rumori sconclusionati di una folla inferocita, in cui la voce sommessa di Pearce stesso è il futile sussurro di un mesto predicatore che sa di non poter essere ascoltato. La composizione è anche la vetta dell'astrattismo di Douglas, se non dell'intera musica industriale: un cupo rituale in cui il lento battito delle percussioni scandisce il trascorrere inarrestabile dei secoli e il chiacchiericco caotico e fastidioso degli uomini si confonde con l'azzuffarsi bestiale di scimmie inferocite. La traccia sembra così ripercorrere l'intera storia dell'Umanità, costituendo una cinica rappresentazione dell'unitilità imperante, della stupidità dell'uomo, della fine di ogni bellezza. E' il picco del pessimismo e della misantropia di Pearce, e come un Mishima che pone fine alla propria esistenza innanzi al dicadimento di valori della società giapponese sotto i colpi del dilagante capitalismo (era il 1970, e l'intellettuale si suicidò pubblicamente attraverso il rituale samurai hari-kari), l'artista inglese, non meno coerentemente, continua imperterrito la sua crociata di imperturbabile fermezza contro i colpi avversi di un mondo spietato che ci vorrebbe informe melassa da plasmare secondo i propri intenti.

"The World That Summer" non è certo un capolavoro, e non sempre è in grado di centrare il bersaglio. Questo album, tuttavia, risulta perfettamente in grado di mettere in luce il potenziale espressivo della musica dei Death in June. Proprio in questo frangente, non a caso, Douglas P. per la prima volta indossa una maschera, e, specularmente, la sua musica diviene a tutti gli effetti il mezzo per esprimere ed al tempo stesso nascondere le lacerazioni insanabili del suo animo tormentato.

Mi si permetta a questo punto un pensiero a titolo personale: se spesso si tende a vedere un personaggio come Pearce alla stregua di un artista tutto sommato mediocre e che ha impostato una carriera su due e tre trovate sceniche, io, di contro, sono pronto a sostenerne l'intrinseca grandezza. E vi chiedo (e sono ben accette obiezioni), se vi viene in mente, in tutta la storia recente della musica, un artista che, come Pearce, abbia saputo compiere una eguale opera di astrazione del proprio sostrato emozionale, una eguale operazione di trasfigurazione metaforica del prorio vissuto in un apparato concettuale e simbolico così impenetrabile ed inaccessibile, ma al tempo stesso pregno di significati e capace di penetrare a fondo nelle nostre coscienze. A me non viene in mente niente.

Carico i commenti...  con calma