Disco enigmatico e difficilmente afferrabile questo "Wall of Sacrifice" dei Death in June di Douglas Pearce, ideatore e principale alfiere del folk apocalittico.
Licenziato nel 1989, esso costituisce a mio parere un capitolo fondamentale nella storia del gruppo, pur non portando in sé la genialità e la forza innovativa e prorompente di "Nada!", né il rigore e l'equilibrio del precedente "Brown Book", e neppure la perfezione formale dei successivi "But, What Ends When the Symbols Shattered?" e "Rose Clouds of Holocaust". In "Wall of Sacrifice", testimonianza del periodo più buio di Douglas P. , e a mio parere l'opera più intensa e profonda partorita dalla Morte in Giugno, troviamo piuttosto la fragilità e il travaglio di un artista in disgregazione.
Proprio perché stiamo parlando di un personaggio estremamente introverso ed enigmatico, idolatrato o ghettizzato spesso per aspetti che nulla hanno a che fare con la musica, risulta assai difficile parlare con obiettività e liquidare la faccenda con una descrizione dei meri contenuti musicali. Si sa, la musica dei Death in June è semplice e non richiede grandi giri di parole per essere spiegata (elementari accordi di chitarra acustica, una voce ferma e profonda, campionamenti e squarci rumoristici a fare da sfondo). È piuttosto l'aspetto concettuale che necessita di essere maneggiato con cautela. Quanto a me, che faccio parte di quelli che amano follemente la musica dei Death in June, il compito mi pare ancora più arduo, poiché quando si ha a che fare con musica a così alto tasso emotivo, è impossibile affrontare la questione in modo del tutto oggettivo, per questo l'analisi di questa opera si andrà inevitabilmente a macchiare di considerazioni del tutto personali. A chi non fosse interessato più di tanto ad approfondire il discorso, basti sapere che "Wall of Sacrifice" è un bel disco dei Death in June, sicuramente non il più accessibile, ma molto vario nei contenuti e capace di annoverare fra le proprie file splendide canzoni che rappresentano ad oggi autentici classici del repertorio del gruppo e del genere intero. Se vi piacciono i Death in June prima maniera, certamente non andrete delusi!
Personalmente, sono solito accostare questa opera a "Pornography" dei Cure, altro dilaniante saggio sul disagio e sul male di vivere. Anzitutto perché li considero entrambi, pur nelle loro diversità stilistiche, due fra i più autobiografici, sofferti e dilaniati/dilanianti album mai partoriti nella storia del rock, dove la sofferenza individuale diviene riflessione inconsapevole sul senso della vita. Entrambe le opere, inoltre, rivestono un significato particolare all'interno della carriera dei due gruppi: come nella storia dei Cure esiste un prima ed un dopo "Pornography", parimenti, nella storia dei Death in June esiste un'era pre "Wall of Sacrifice" ed un'era post "Wall of Sacrifice". Infine, è possibile cogliere una similitudine nei due artisti e nel modo in cui hanno vissuto la gestazione di queste due opere: entrambi gli album, di fatto, hanno rappresentato il culmine di un ciclo e al tempo stesso hanno costituito la premessa indispensabile per una rinascita, sia spirituale che artistica, poiché hanno testimoniato quel vuoto esistenziale da cui non si può che risalire (perseverare per la stessa strada avrebbe di certo comportato la fine, in tutti i sensi!): e così, come in "Pornography" Smith tocca il fondo e al tempo stesso pone le condizioni per una lenta risalita, così è accaduto a Douglas P. con questo "Wall of Sacrifice", che di fatto ha davvero rischiato di rappresentare il canto del cigno della Morte in Giugno, l'estremo saluto di un artista impantanato in una profonda crisi depressiva ed esistenziale.
Meno male, aggiungiamo noi, che con il tempo il Nostro abbia trovato la forza per ricredersi, recuperando l'ispirazione per scrivere nuovi capolavori (fra cui i già citati di "But, What Ends…" e "Rose Clouds…"), brillanti testimonianze di una seconda giovinezza artistica. "Wall of Sacrifice" è quindi un disco eccezionale figlio di circostanze eccezionali: un affresco sfocato e allucinante che porta in sé lo stato confusionale di un artista che sembra aver perso la lucidità e la padronanza dei propri veicoli espressivi. Gli elementi tipici della musica dei Death in June, di fatto, sono tutti presenti, la componente industrial-rumoristica come quella folk-acustica, ma qui li troviamo trasfigurati ed estremizzati, come se in qualche modo se ne fosse perso il controllo. Proprio da questo stato di estrema vulnerabilità, prendono vita secondo me i momenti più intensi della poetica di Pearce, poiché il mancato intervento di una forza moderatrice e di una mediazione da parte della ragione, hanno fatto sì che non venissero attenuate la spontaneità e la carica emotiva insite nell'atto creativo che ha ispirato questa opera. Al tempo stesso, proprio l'assenza di un filtro razionale ha impedito che venisse effettuato un controllo rigoroso e consapevole del materiale composto, lasciando così la macchina impazzita libera di partorire anche mostri terribili e feti prematuri.
L'impressione è che siano state concentrate nello stesso contenitore forze nemiche e cozzanti, materiale grezzo ed incandescente che l'artista doveva necessariamente tirare fuori e che non sia stato in grado di veicolare con la piena consapevolezza, tanto era difficile maneggiare la materia. A rendere ancora più enigmatica questa opera vi è poi secondo me una perenne tensione fra l'esigenza impellente dell'artista di rivelarsi e al tempo stesso di nascondersi: da un lato la necessità di acciuffare e tirare fuori il fantasma che lo tormenta, dall'altro i meccanismi di difesa che tendono ad impedire alla psiche di accedere a verità traumatiche. Da qui il coesistere di momenti di estrema fragilità e trasparenza accanto ad infinite escursioni rumoristiche, nel quadro di una generale aria di incomunicabilità che è possibile respirare per tutta la durata del platter. Ma forse il fascino di questa opera sta proprio in questo, nelle sue incongruenze, nelle sue intemperanze e nella sua generale trascuratezza e mancanza di calcolo, aspetti che vanno a testimoniare la totale spontaneità e il più assoluto coinvolgimento che hanno ispirato l'opera stessa. Un segnale importante, proprio quando era lecito temere che il gruppo, giunto al quinto full-lenght e potendo vantare un certo seguito ed una indiscussa influenza sull'intera scena, si adagiasse sui propri cliché e partorisse un disco ridondante e di maniera. Ma evidentemente, e fortunatamente, i Death in June non sono una macchina per fare soldi. Si parlava appunto di mostri ed intemperanze, ed in questo senso c'è da dire che l'album si apre all'insegna della più totale incomunicabilità.
"Wall of Sacrifice", la title track, è davvero un muro, una barriera che Douglas sembra voler erigersi attorno, come se volesse porre una distanza fra sé e l'ascoltatore, e scoraggiarlo nel proseguire l'ascolto (come se l'intento fosse proprio quello di spaventare tutti quelli che non sarebbero in grado di capire). E certamente comporta un sacrificio, poiché è davvero arduo arrivare in fondo ai suoi 16 minuti di rumorismo intransigente. Un viaggio delirante in cui, sotto il tema ossessivo di un elementare giro di pianoforte, vengono ad aggrovigliasi in modo caotico gli elementi che da sempre distinguono la poetica di Pearce: richiami bellici, rintocchi marziali, canti militari, il tutto reso ancora più claustrofobico ed ossessivo dal riverbero di campanelli, da filastrocche infantili, dalla confusione delle voci campionate. Il motto "Heilige Tod", ripetuto continuamente, esplicita la voce della pulsione di Morte che emerge incessante dal magma dell'inconscio, e costituirà il vero leit motive dell'album (il tema dell'attrazione-repulsione della Morte, cercata e al tempo stesso rabbiosamente fuggita, è del resto tipica della poetica dell'artista). Una sortita del genere non costituisce certo una novità in casa Death in June, ed inevitabilmente questi suoni non ci possono che richiamare alla mente la colossale "Death of a Man" (da "The World that Summer"), ma almeno allora s'aveva avuto il buon cuore di piazzarla fra le ultime tracce. E comunque in essa era possibile scorgere un nesso poetico ed artistico, mentre qui ci ritroviamo investiti da una tale foga e da una tale irrazionalità onirica che difficilmente non se ne può uscire esausti: pare di fatto di assistere alla messa in scena di un incubo in cui gli elementi del reale perdono consistenza ed concatenazione logica, come a significare lo stato confusionale della vita interiore dell'artista, che guarda alla propria esistenza, presente e passata, come ad un vero e proprio incubo.
Si parlava anche di incongruenze, e di fatto, dopo un tale tour de force, è un vero sollievo per le nostre orecchie la chitarra acustica della successiva traccia, "Giddy Giddy Carousel", una scanzonata ballata in cui Douglas ripropone il classico tema della cara e vecchia Europa in declino: una song che suona quasi allegra (per gli standard del gruppo), vivacizzata dalla drum-machine e dalle backing-vocals eteree di Rose McDowall, presente anche in molte opere dei cugini Current 93. Lo stesso tipo di contrasto (e se ne incontreranno molti altri lungo l'ascolto) è presente al termine dell'album, in modo perfettamente speculare: sto parlando dell'accoppiata "Hullo Angel" e "Death is a Drummer". La prima è un'altra breve traccia acustica, una dolce ninnananna scritta insieme all'amico David Tibet dei Current 93, già presente in "Swasticas for Goddy" dei Current stessi. La seconda è invece un'altra lunga escursione rumoristica (9 minuti!), in cui sono riproposte le stesse atmosfere marziali della title-track, in una forma più minimale e cupa: un inquieto ribollire solo a tratti mitigato da cori femminili. La maggiore coerenza testimonia forse un lenirsi dell'elemento confusionale, ma certo l'accresciuta cupezza delle atmosfere non è di buon auspicio, come a significare che alla fine del viaggio niente sia cambiato, niente sia stato risolto.
Interpretazioni personali a parte, c'è un dato oggettivo da evidenziare: nell'economia dei 42 minuti di durata dell'album, i 25 complessivi di intransigenza sonora della title track e di questa traccia non sono affatto pochi, costituendo ben più della metà dell'opera. Non si può certo dire che si tratti dell'album più melodico della Morte in Giugno! Ma c'è un'altra notizia inquietante: la voce di Douglas è protagonista in solo tre song, fra le più brevi, così che il contributo vocale del singer si limita alla fine a 7-8 minuti complessivi, una goccia nel mare della cacofonia. Un elemento, questo, che conferisce all'opera un'ulteriore senso di disorientamento. In "Bring in the Night", fra il lento e minaccioso battito marziale delle percussioni e il fischiare di una chitarra distorta, primeggiano le spoken vocals dell'amico Boyd Rice dei Non (che ci propina le sue consuete tesi sul senso della Storia vista dall'ottica di un neodarwinismo sociale estremizzato, in cui la spietata selezione naturale vede prevalere la legge del più forte, predestinato a schiacciare il debole, condannato a sua volta a soccombere). Il pezzo si conclude con una nenia cantata dalla McDowall, mentre la voce di Douglas, qui in sordina, è un eco lontano che stenta a farsi udire. "In Sacrilege" è invece un drammatico canto sulla solitudine scritto da Douglas ed interpretata magistralmente da Tibet (altrettanta bella la versione cantata dallo stesso Douglas presente nel tutto sommato trascurabile "Abandon Tracks!", raccolta di b-sides, inediti e rarità uscita lo scorso anno). Splendido il connubio fra i fraseggi acustici e gli squarci elettrici, mentre un Tibet in stato di grazia è protagonista di una prova d'una intensità rara, dando sfogo ai sentimenti contrastanti di lotta e rassegnazione (tipici della poetica pearciana) che il brano vuole ispirare.
Il compito di legare fra loro questi frammenti (diversi sia nella forma che nelle sensazioni che vogliono suscitare), spetta alla coppia delle speculari "Heilige Leben" e "Heilige Tod", due brevi filastrocche (entrambe cantate dalla McDowall) che riprendono il tema che aveva fatto da introduzione al "Brown Book". Poste la prima fra le tracce iniziali e la seconda a conclusione dell'opera, esplicitano lo schema dialettico dell'album, che ripropone l'eterno scontro fra Vita e Morte. Proprio il fatto d'aver posto "Heilige Tod" alla fine del viaggio, fa assumere all'intero album le sembianze in un vero epitaffio, che porta in sé l'amaro sapore di una scelta definitiva, da cui non si torna più in dietro e in cui la Morte sembra essere l'unica vincitrice. Il culto estetico della Morte e le pulsioni autodistruttive di Douglas raggiungono qui il loro apice. In mezzo a questa marasma troviamo "Fall Apart" (letteralmente: cadere a pezzi) che ripropone prepotentemente il tema della disgregazione. Esso costituisce a mio parere il vero top emotivo dell'opera (e forse dell'intera carriera di Pearce): un fugace momento di lucidità in cui l'artista finalmente si svela e ci mostra la sua anima, spogliato dalla corazza delle macchine, del paravento ideologico, della mediazione di altri che gli fanno da portavoce. Lui solo e la sua chitarra. Finalmente. Un canto di tristezza, solitudine e rassegnazione che nella sua semplicità disarmante (un accordo elementare di chitarra per nemmeno due minuti e mezzo di durata) non solo costituisce il cuore pulsante dell'opera (e attraverso il quale l'opera stessa diviene finalmente intelligibile e viene ad acquisire unitarietà e coerenza), ma è anche in grado di esplicitare, nel modo più assoluto e completo, il senso e l'essenza della poetica spietata e pessimista di Douglas P. : la sua condizione di perenne esule, la sua lacerazione insanabile, il suo approssimarsi alla fine.
Proprio per questa sensazione di sgomento, di disappunto e al tempo stesso di piena rassegnazione innanzi alla fine imminente, la musica dei Death in June è, secondo me, davvero apocalittica: il senso di abbandono dell'uomo al suo Destino, la lotta per cambiarlo, l'orgoglio, la fermezza e la sconfitta inevitabile. Ma non si tratta qui di intendere l'apocalisse nella stessa accezione che di tale concetto hanno gruppi come Current 93 e Sol Invictus; qui si tratta di "Apocalisse dell'Io", di tratteggiare, mediante simbologie ed una iconografia d'impatto ma dai densi contenuti emozionali, l'inferno personale dell'artista stesso. La dimensione del dolore di Douglas è di fatto una dimensione strettamente privata, difficilmente esportabile e che non vuole assurgere in nessun modo a modulo universale: la morte di un uomo ("The Death of a Man") è sì la morte dell'Uomo, ma solo perché qui soggetto ed oggetto vengono a coincidere (l'apoteosi dell'individualismo!), in una concezione nella quale ognuno è un mondo a sé stante. Condivisibile è piuttosto il dolore, così profondo e puro, che non può che essere riconosciuto e compreso da chiunque altro abbia una minima concezione di cosa esso sia. Tutto questo sta in "Fall Apart", impossibile spiegarlo a parole: o lo si sente o non lo si sente, questione di sensibilità. Per questo, secondo me, la song costituisce il test più valido per capire se alla fine della fiera, fra lo schiamazzo degli esaltati sostenitori e il disprezzo profondo dei detrattori, si è veramente compreso la musica dei Death in June.
Tutto il resto (le mimetiche, le rune, il Totenkopf) sono stronzate, non altro che orpelli ornamentali e maschere che celano e al tempo stesso simboleggiano il disagio, la solitudine, il tormento di questo artista unico ed incompreso.
"And if I fall from DreamsAll my Prayers are SilencedTo love is to loseAnd to lose is to Die. . . And why did you sayThat things shall fallAnd fall and fall and fallAnd fall apart?"
Carico i commenti... con calma