Tim Holmes e Richard Fearless sono fuori dal tempo, ma ben immersi nel loro tempo, il loro è un sound che emerge intenzionalmente dagli spettri usciti da una selva di ricordi in cui convivono Elvis The Pelvis, William Gibson, e il ronzio della macchina da presa di Jodorowsky e Arrabal (grandi satanassi).

Questo disco uscito alla fine dello scorso millennio è fino ad ora la loro migliore opera: dove dimostrano davvero che tutto se riciclato con i controcazzi puo essere elevato a espressione d'arte, si, perchè dalle ceneri possono far rinascere tutto, è sufficente campionare, mettere le mani nel sacco della farina altrui, credere nell'angoscia filosofica della materia in costante trasformazione.
La tavolozza è abnorme, tutto è gia stato scoperto, non rimane che prendere a piene mani e ricucire destabilizzando quello che già suonava cool e che grazie a mani esperte suonerà curucucùl (un po come nelle recensioni, mica noi nasciamo conoscitori, si inizia a parlare citando le frasi altrui, non si inventa nulla, non si è autori di un cazzo, anzi, è proprio un arroganza questa di credersi autori di qualsiasi cosa, si prende un po quà e un po là, si amalgama il tutto con la propria sensibilità personale per uscirsene poi con qualcosa di diverso, solo questo si può fare), ed è appunto quello che fanno gli artisti moderni come i death in vegas, essi resuscitano i beat di "twist and crawl", proiettano l'ologramma western nella megalopoli screamadelicizzata ed exterminata, andando a caccia di ricordi, di suoni seppelliti nelle necropoli degli artisti, per trasformarli nei battiti amplificati di un Golem del pace-maker diffetoso.

Cori gospel, bassi profondi, dense atmosfere dark, effetti stranianti e soundscapes lunatici che aggiungono intensità, mentre le chitarre distorte donano all'amalgama il giusto aroma psichedelico, a tratti sembra tornare con la mente al fumoso UFO club della swinging london anni '60, le loro sessions e i loro live hanno l'energia di un concerto rock, pur essendo loro distanti dalla cultura rock, e più vicini all'onda del big beat, il loro lavoro è quasi incatalogabile, c'è chi ha parlato di immondizia sonora, effetivamente questo è un termine adatto per capire questi alchimisti del groove, crossover anomalo che mixa rumori da garage band con sporche bass-line, dub reggae, suggestioni pop art e un immaginario vicino ai grandi noir anni 40, il mitico Detour di Ulmer, I Gangsters con Burt Lancaster e la divina Ava Gardner, Giungla d'asfalto di John Houston.

Quindi i death in vegas non sono la solita coppia sampladelica di topi di studio amanti del break-beat, ma sono dotati di una prospettiva più ampia che riunisce oltre a sampler e sequencer anche diversi strumenti proprii, chitarre e parti vocali assieme ad artwork visuali dove riescono effettivamente ad attraversare un ampio range emozionale e stilistico proseguendo l'opera di riavvicinamento tra dance e rock sancita dalla collaborazione con i jesus and mary chain e con un grande Iggy pop nella traccia "aisha", l'iguana declama perversamente cavalcando il clamoroso beat in questione, in "Flying" cercano di annullare ogni sorta di barriera tra il dark e la psichedelia, forse il pezzo più riuscito del disco, suono avvolgente, tastiere Sixties-style in saliscendi cosmici, iteratività cervellotica, riverberi di magnitudo 2, rimbombi pesanti di cassa e cupe linee di basso fortemente influenzate da Jah Wobble ex P.I.L., in "Lever Street" suonano un Gospel all'organo con la matrona nera di turno intenta ad orgasmare declamazioni flower-power, ed ancora: catatonici trip-hop industriali come "death threat", collage frattali ricchi di bagliori, pulsazioni, melodie seducenti in parte riconducibili a certa psy-trance astratta con vocalizzi riprocessati ("Dirge"), in parte alle zone più dark ("Soul Actioneer").

Adattissimi per gli onnivori apolidi del connubio digitale-vintage.

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