Aveva solo bisogno di tempo, Steve Sylvester: dopo aver archiviato temporaneamente la sua storica creatura con lo sciatto “The Seventh Seal” (si sapeva fin dall'inizio che i Death SS sarebbero prima o poi tornati, per questo non ci sorprendiamo della loro “resurrezione” targata 2013), il leader della band non è certo rimasto inattivo, fra nuovi progetti musicali (Santa Sanctorum, Opus Dei), collaborazioni cinematrografiche (in qualità di attore e sceneggiatore) e release estemporanee di inediti vergati Death SS atti a mantenere accesa la fiamma della speranza; in tutti questi anni egli è evidentemente riuscito a trovare quegli stimoli che gli hanno permesso di tornare alla grande con un grande lavoro che difficilmente potrà riscuotere pareri negativi fra vecchi e nuovi fan.
Sulla professionalità che i Nostri avrebbero riversato sul nuovo lavoro non avevamo dubbi; a colpire in senso positivo è il ritorno di quell'ispirazione che ha reso grande ogni episodio precedente, salvo quel “The Seventh Seal”, appunto, che ci era apparso alquanto appannato sia da un punto di vista compositivo che in sede di arrangiamento e produzione. Aiuta senz'altro il fatto che i brani oggi presentati siano in verità stati scritti in momenti diversi, frutto di energie saggiamente centellinate nei ben sette anni di “inattività” della band. E così i Death SS ci sono, confermandosi una band imprescindibile che nonostante una carriera che conta oramai ben sette lustri dimostra un'invidiabile longevità.
Mai come in questo “Resurrection” comprendiamo lo status di vera band di culto che può vantare una formazione che negli anni rimane l'unico ed inimitabile modello di un genere, quell'Horror Metal dai Death SS stessi forgiato e che non trova altri esempi, nemmeno nella sfera della bieca emulazione. A partire dal titolo giustamente auto-celebrativo, dalla data di pubblicazione (il 6 giugno 2013, non altro che il famigerato 666 – il terzo 6 si ottiene sommando le cifre di 2013), dal recupero dell'antico logo e dalla pastellosa copertina curata dallo storico illustratore e fumettista Emanuele Taglietti, artista a sua volta di culto.
Ma non si creda che gli umori squisitamente vintage percepiti a livello grafico rispecchino in toto i contenuti dell'album, che non è il banale ripescaggio delle sonorità delle origini, bensì l'esaustivo compendio di quanto la band abbia combinato nell'arco della sua più che trentennale carriera: una panoramica che non rinuncia a posarsi anche su quelle sperimentazioni electro/industrial perseguite a partire da “Panic” in poi. E così, semplificando, “Resurrection” sembra muoversi fra i suoni duri, metallici, ma anche melodici di un “Heavy Deamons”, l'oscuro marasma gotico di un album grondante esoterismo come “Do What Thou Wilt” e l'eclettismo del più recente “Humanolies”. E così i redivivi Death SS mettono insieme, da grandi maestri quali sono, gli stilemi di un corposo e potente heavy metal di matrice classica e i “modernismi” resi da un uso sapiente e mai invadente dell'elettronica, che pulsa tenebrosa lungo diversi degli episodi oggi presentati. Senza ovviamente accantonare la maleducazione oltraggiosa di un malefico glam, che da sempre è background fondamentale per i Nostri, e virate doom che guardano al passato più remoto della band: un gradito ritorno a sonorità che rammentano l'era Paul Chain e che rendono ancora più vivido ed efficace lo sforzo della band nel coniugare metal, occultismo ed atmosfere da film horror di serie zeta. Insomma, “Ressurrection” è niente più niente meno di ciò che sono sempre stati e sempre saranno i Death SS.
Se quindi non si può parlare di drastici stravolgimenti a livello stilistico, la band è comunque in grado, anche a questo giro, di confezionare un lavoro fresco e diverso dai precedenti, laddove l'attesa di sette anni argina quel senso di deja-vu che sarebbe stato un rischio attendibile se questo album fosse uscito troppo a ridosso del suo fiacco predecessore. La stessa formazione scelta dal mastermind annovera musicisti preparati in grado di donare al prodotto lo smalto dei vecchi tempi. A partire dalla chiamata alle armi del mitico Freddy Delirio, primo tastierista dell'ensemble toscano, che va a sostituire il pur ottimo Oleg Smirnoff che, per la giovane età e il background progressivo, seppe comunque imprimere venti di modernità nel sound collaudato dei Nostri, a scapito però di quelle atmosfere arcane e misticheggianti che costituivano il tratto distintivo del combo fin dalle sue origini. Bozo Wolff si conferma il miglior batterista che abbia militato di recente nella band, ricordando, in quanto a potenza, le gesta del grande Ross Luckater. Glenn Strange ne è la degna controparte al basso, mentre da applausi risulta la performance alle sei corde di Al De Noble, già recente collaboratore di Sylvester nei suoi progetti, qui protagonista indiscusso, capace di destreggiarsi fra ritmiche possenti (spesso al limite del thrash, con qualche inevitabile deviazione verso territori nu) e assoli di pregevole fattura che ci riportano ai tempi in cui la band era dedita ad un metal più classico. Discorso a parte merita l'operato del leader dietro al microfono, che se da un lato difende intatto il proprio carisma, a tratti sembra scomparire fagocitato nei meandri di un sound corposo ed iper-prodotto, fra chitarre, tastiere, elettronica e cori femminili (presenti in più di un episodio): evidentemente le corde vocali di Sylvester non hanno tenuto, innanzi alle grinfie del tempo, quanto i suoi addominali, cosa tuttavia che possiamo comprendere e perdonare, data anche il fattore anagrafico.
Quindi perché solo quattro stelle e non venticinque? Non mi sento di conferire all'opera, seppur essa sia ottima, il massimo dei voti, perché qua e là riscontro nell'ascolto qualche ruffianeria di troppo, la tentazione in più di una circostanza di abbandonarsi ad un gothic rock piacione e dagli esiti scontati (e in effetti i ritornelli non sono sempre memorabili). Ma questo, ribadisco, significa tagliare il capello in quattro e non tener conto che Steve Sylvester ha sempre avuto un occhio di riguardo verso il proprio pubblico, soprattutto da quando la sua creatura è tornata improvvisamente di moda in virtù dell'ondata di band industrial/goth/metal affacciatesi nella metà degli anni novanta, in seguito al successo di act quali Rammstein, White Zombie e Marylin Manson. Se quindi una certa dose di piacioneria andava messa in conto (del resto Sylvester è uno che recita nell'”Ispettore Coliandro” e non nelle pellicole di Jodorowsky), non saremo certo noi, che lo seguiamo da tempo immemore, a scandalizzarci, visto che lui certe cose le ha fatte veramente prima di molti altri.
Fatte le dovute premesse, gettiamoci quindi nella disamina sommaria di queste dodici tracce che messe in fila fanno quasi un'ora di ottima musica. In merito alla genesi dei singoli episodi, certi dei quali i fan più attenti avranno avuto modo di conoscere in quanto già editi come estratti di colonne sonore o sotto forma di singolo, vi lascio alle dettagliate note presenti all'interno del bel booklet. Soffermiamoci quindi sui momenti più interessanti. L'opener “Revived”, aperta dal pulsare della techno, potrà inizialmente sdubbiare i fan della prima ora, che tuttavia verranno presto ricompensati dall'irrompere di ritmiche serrate ed un ritornello coinvolgente: da questa prima traccia, forte di suoni potenti e nitidi ed un groove irresistibile, è già possibile intuire le coordinate su cui correrà l'intero album, quel mix fra vecchio e nuovo che certo potrò soddisfare sia i cultori delle atmosfere gotiche tout court che gli amanti del timpano rovente. Il già singolo “The Darkest Night”, posto in terza posizione, conferma le buone intenzioni della band, che si mostra grintosa e sfrontata nell'affermazione della propria identità. Idem per il rock furibondo di “Santa Sangre”, che brilla per un ritornello che entra nell'orecchio fin dal primo ascolto. Attenzione però a non farci ingannare dal tiro commerciale di certi passaggi o dall'impressione che la band si sia accontentata di melodie d'impatto e dalla facile presa: ripetuti ascolti ci dimostreranno il reale spessore che questi pezzi mostrano sia in sede di scrittura che (soprattutto) in fase di arrangiamento.
E il tutto non si esaurisce in fucilate metalliche ed anthem da cantare a squarciagola: la band intende mostrarci altre facce della sua poliedrica natura, compresi momenti più atmosferici e di maggior pathos. Fra gli episodi più suggestivi è il caso di citare “Ogre's Lullaby”, aperta da un inquietante carillon e da uno dei riff doom più sulfurei che i nostri abbiano mai dato alle stampe: il latrato effettato di Steve Sylvester, in mezzo al montare delle orchestrazioni maestose e lo stridere di grida assortite, conferisce un alone ulteriormente malefico al brano, che certo non è da annoverare fra i momenti più “leggeri” del platter. Stesso discorso potrebbe essere fatto per l'altro grande pezzo dell'album, quello che forse ne costituisce l'apice assoluto, ossia “The Song of Adoration”, mini-suite di quasi dieci minuti che si pone a metà strada fra il power-ballatone (in stile “The Serpent Rainbow”, da “Do What Thou Wilt”) e l'evocazione misterica (già sperimentata ai tempi di “Black Mass”): è in questi casi che Steve Sylvester, reo di una prestazione vocale evocativa quanto teatrale, ci ricorda che la classe non è acqua e soprattutto che i Death SS non si abbassano al livello delle banducole in cerca di conferme dall'ascoltatore più superficiale.
Conclude il tutto il rock scanzonato di “Bad Luck” dal testo ironico e tagliente teso a sfatare il mito negativo dei Death SS in quanto “band porta sfortuna” e a mandare (giustamente) affanculo una volta per tutte gli scaramantici di turno.
Insomma, si sarà capito, ce n'è davvero per tutti i gusti: lasciatevi quindi tentare ancora una volta da un artista e dalla sua band che proprio non vogliono saperne di andare in pensione.
Carico i commenti... con calma