Prima di affrontare l’ennesimo capitolo della saga Purple è legittimo chiedersi: che motivo ha una band alla soglia dei quarant’anni di carriera di continuare ad incidere album privi di mordente e lontani dai lavori che l’ha resa epocale? Per giunta, non trattandosi del gruppo del momento non possiamo nemmeno ipotizzare un vincolo contrattuale, dato che si tratta di una band che, pur avendo alle spalle una quantità innumerevole di capolavori in questo momento non costituisce un elemento di rilievo per il mercato discografico. Purtroppo non possiamo offrire una risposta esauriente, ma, dopo avervi lasciati a questa oscura dissertazione, iniziamo ad analizzare questo album dal titolo eccentrico: l’apertura è affidata alla dirompente “House of Pain”, uno spensierato hard rock più vicino agli Aerosmith del tempo che furono piuttosto che ai “porpora” che conosciamo: il bridge centrale è arricchito da un ispirato assolo di Morse, chitarrista dal gusto espressivo fuori dall’ordinario, in grado di risollevare anche le sorti delle composizioni meno riuscite. La successiva “Sun Goes Down” ricalca le atmosfere buie di brani storici quali “Bloodsucker” e “Perfect Strangers”, semplificandone la struttura ed appiattendone i picchi emotivi : il risultato è gradevole ma certamente non memorabile.
Con “Haunted” la band ci sorprende presentandoci un’ elegante prova di ispirata classe, rivelando una particolare abilità nel realizzare ballate, tipologia di brano mai abbastanza valorizzata nella storia del gruppo: questa soluzione, vuoi per scelta stilistica o per risparmiare fatiche vocali ad un attempato Gillan, si rivelerà la carta vincente di questo album.
Le successive “Silver Tongue”, “Razzle Dazzle” e “Pitcures Of Innocence” sono puri episodi di mestiere musicale, semplici ed accattivanti canovacci su cui esibire l’eleganza chitarristica di Morse e la classe del nuovo acquisto Don Airey alle tastiere, rimpiazzo del leggendario Jon Lord.
Anche “Never a Word” e “Doing It Tonight” si dimostrano piacevoli quanto prive d’effetto, entrambe dimostrazioni di versatilità musicale, purtroppo non sostenute da una struttura convincente.
Un discorso a parte merita “Walk On”, un blues dagli accenti melodici che ricorda da vicino la malinconia di una struggente “Wasted Sunsets”: Ian Gillan esibisce una delle sue più sentite interpretazioni, discostandosi dalle sue consuete timbriche per privilegiare uno stile ineditamente “coverdaliano”, valorizzando così il contesto melodico del pezzo.
Il brano che dà il titolo al disco, un rock eseguito in tempo dispari con divagazioni progressive, non si allontana dai consueti canoni stilistici del gruppo, con un risultato pregevole, anche se non illuminante per essere la canzone-simbolo di un album.
Dunque “Bananas”, come del resto molte pubblicazioni degli ultimi quindici anni da parte dei Deep Purple, non aggiunge nulla al cammino artistico da loro intrapreso nell’oramai giurassico 1968, confermando l’abilità tecnica e la grinta di una band che ha detto molto nella storia del rock, ma che forse ha cercato di dire più del necessario.
“Bananas” si dimostra il lavoro ben fatto di una band a cui rimane poco da comunicare ma che lo fa con molta classe.
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