I Deep Purple cominciarono a farsi un nome in Italia con questo 45 giri del 1970 che, pur non volando altissimo nella classifica nostrana, arrivò comunque a ridosso della mitica Hit Parade del venerdì, quella presentata alla radio dal rimpianto Lelio Luttazzi. In realtà c’era già stato il loro singolo di esordio “Hush” a smuovere un poco le acque tre anni prima, ma si era affermato quasi esclusivamente negli USA e per questo con una debolissima eco qui da noi.

La storia di “Black Night” è abbastanza nota agli appassionati: i Purple fecero ascoltare con malcelato orgoglio l’album “In Rock” appena registrato ai loro discografici, così ribollente di grinta, potenza, abilità esecutiva, ricco di sezioni spettacolari sia vocali che strumentali… ma dai business men la classica domanda non ci mise molto ad arrivare: “Si, ma il singolo, il pezzo da classifica dov’è?”.

Come dov’è?... è questo! Quello all’inizio!” (e cioè “Speed King”) provarono a ribattere i musicisti. “Naa! Troppo rumoroso, convulso, virtuosistico. Tornate e proponetecene un altro!”. Così il gruppo tornò giocoforza in studio, cazzeggiando a lungo prima di concentrarsi su di un riff del chitarrista Ritchie Blackmore più o meno scopiazzato da una vecchia cosa di Ricky Nelson. Un salto al pub più vicino per un salutare break etilico mise le cose a posto scaldando a puntino la vena e la coesione dei giovani musicisti e al ritorno nello studio venne tutto fuori di getto, in poche ore.

Tanta roba: la macchinosa frase introduttiva una tantum a merito del bassista Roger Glover, il ritmo terzinato e soprattutto i formidabili, estrosi, inventivi break batteristici del giovanissimo ma già eccellente Ian Paice, ad ogni passaggio tra riff e strofa; poi il cantato di Gillan infilato, come logica e opportunità richiedono, fra le sincopi di basso/chitarra/organo in unisono. L’abituale pigrizia del cantante, il poco tempo a disposizione, il risentimento verso i discografici giocarono tutti insieme verso la stesura di liriche quanto mai approssimative e rozze, con l’andamento in rima quale unico accorgimento, senza nient’altro scopo che aggiungere lo strumento voce agli altri e completare così degnamente il caleidoscopio di colori timbrici necessari ad un buon pezzo rock.

L’assolo del talentuoso Blackmore si piega anch’esso all’urgenza della situazione, non andando a cercare linee melodiche brillantemente alternative come d’uso nei più ragionati e migliori momenti, risolvendosi più superficialmente in una serie di grintosi e ostinati licks, ripieni di bending e di botte con la leva del tremolo, ad eruttare massima spettacolarità e durezza possibili. Il suo momento catartico è proprio nell’incipit, con un armonico preso e subito lungamente stravolto con inauditi, ampissimi smanettamenti del tremolo a frequenze stroncanti. Il risultato è uno squittio animalesco di grande effetto, anch’esso palestra di addestramento per legioni di chitarristi in erba e non, insieme a tanti altri passaggi strumentali memorabili di questo seminale ed influente musicista. C’è da puntualizzare che il super chitarrista dei Purple era in grado di raggiungere simili livelli di stravolgimento dell’intonazione delle sue corde grazie ad una speciale leva del vibrato, molto più grossa lunga e pesante, e quindi potente, di quella standard montata dalla Fender. La Stratocaster di quegli anni (nera, con la tastiera chiara in acero) fu poi sostituita da altre, sulle quali Blackmore non intese più di operare la stessa modifica al tremolo, perdendo così quell’efficacissimo uso estremo dell’effetto.

Il medesimo smanettamento estremo di leva lo troviamo di nuovo in apertura del retro del 45 giri “Speed King”, brano estremamente più qualitativo e spettacolare nella storia dei Purple, anche se meno commerciale di “Black Night”. La terremotante sequenza free form di una trentina di secondi (che come già accennato apre anche l’album capolavoro del gruppo “In Rock”), con tutti e quattro gli strumentisti a fare casino prima di acquietarsi sulle note liturgiche dell’Hammond di Jon Lord, risultò quanto mai scioccante e spiazzante in quel lontano 1970.

In maniera in qualche modo progressiva, il gruppo struttura il pezzo a fasi diverse, prima con la doppia falsa partenza casino + organo, poi la partenza in quarta con la parte cantata nella quale di nuovo Gillan viaggia più per fonetismi che per stretto significato delle frasi (ma che voce! Belluina…), poi si passa ad un sapido e rotolante duello strumentale mezzo jazz e mezzo blues fra chitarra ed organo, poi gli strumenti stringono di nuovo il ritmo con un crescendo un po’ così, architettato dal solito macchinoso bassista Glover, che risolve in un’ultima strofa, abbaiata dall’ugola immacolata e potentissima di Gillan con ancora più grinta delle precedenti, fino all’enfasi finale con organo distorto a sfondare i timpani e gli ultimi singulti di chitarra: un vero pezzo storico di rock fine a se stesso, senza altro messaggio che la bellezza estetica di un simile sfoggio di potenza, ferocia, comunicativa e fratellanza musicale.

Disco perfetto di un’epoca esaltante per il rock: sulla prima facciata la semplicità, la gigioneria, l’accessibilità, l’universalità; nella seconda la velocità, la dinamica, l’eclettismo, la forza, la voglia, il divertimento.

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