Recensire un live album che immortala i Deep Purple nel pieno fulgore della Mark II non è cosa facile. Ancora meno se pensiamo al fatto che numerose canzoni presenti in Deep Purple In Concert sono contenute nel notissimo, inarrivabile (o quasi) "Made In Japan", sul quale si sono spesi fiumi di (meritati) apprezzamenti. E in effetti, chi ascolta i Deep Purple solo saltuariamente troverà senza dubbio i due album molto simili tra loro; la sola differenza sostanziale che noterà, a parte, ovvio, una scaletta leggermente ritoccata, è che "Made In Japan" suona meglio di "In Concert" grazie a una post-produzione di livello più elevato (e forse meno genuino, oserei aggiungere). Qualcun altro potrebbe pure lagnarsi di una recensione poco utile o addirittura superflua; qualcun altro ancora potrebbe sbottare con un infelice "largo ai giovani" e così via. Eppure personalmente ritengo che recensire un doppio live di questa levatura è un obbligo che va assolto in ogni caso. Il mio augurio quindi è che non tutti ascoltino i Deep Purple solo saltuariamente. E che qualcun altro, come il sottoscritto, pensi che il meglio del rock, forse, l'abbiamo ormai alle spalle.

Accade che per ognuno di noi esistono dei dischi che ormai non appartengono al vinile che li ha generati, ma sono definitivamente amalgamati con la nostra storia e con la nostra personalità come una talea, fossero quasi una propaggine di noi stessi; o, più semplicemente, restano nascosti nella parte meno razionale della nostra zucca continuando a germinare nascostamente. Ma ci sono. E' storia nota a tutti: alcuni dischi del nostro passato hanno contribuito, anche se solo in piccola parte, a farci diventare quel che siamo oggi, e nessuno sostenga il contrario perché direbbe una fesseria. Ognuno ha il proprio disco, e talvolta nemmeno sa dire il perché. Ma è così. Ecco: Deep Purple In Concert è, appunto, Il Mio Disco. I pareri che seguono potranno quindi non essere del tutto obiettivi e a questo proposito mi auguro che la cosa non finisca per sollevare inutili polveroni.

Ho ascoltato "In Concert" per la prima volta nell'estate del 1987. Avevo diciasettett'anni. Era registrato su una vecchia audiocassetta, già provata da numerose sovraincisioni e la qualità, per forza di cose, era quel che era (e chi aveva i soldi per un lettore cd? Il nuovo supporto era uscito da pochi anni e costava non uno ma entrambi gli occhi della testa, e francamente nemmeno so se all?epoca esistesse una versione in cd di questo doppio album), ma quello che provai al primo ascolto lo conservo ancora intatto e cristallino nella memoria. Non lo posso descrivere, sarebbe un po' come descrivere un tramonto: rischierei di scadere nel banale o, peggio, nel melenso. Ma per me fu, letteralmente, come vedere. Avevo già ascoltato una loro raccolta di successi poco tempo prima, e il mio bagaglio di metallaro in erba allora era già notevole, ma l'impatto sonoro che mi trovai ad affrontare mi coinvolse in una bufera di emozioni che ancor oggi, a vent'anni di distanza, riesco a provare identiche ad allora. Il doppio vinile fu mio dopo alcuni mesi (credo che lo pagai una cifra enorme, ben oltre le ventimila lire, anche se adesso non potrei giurarlo...) e la versione in cd non molto tempo fa. E senza rimetterci alcun occhio.

Le canzoni contenute in questo doppio live appartengono in buona parte alla consolidata "mitologia" dei Deep Purple, scolpite nell'immaginario collettivo alla stregua dei volti che riempiono la copertina dell'album In Rock. Inizialmente la recensione riguardava solo le canzoni contenute nel doppio vinile; la versione in cd infatti contiene anche "Maybe I'm A Leo" e "Smoke On The Water" originariamente non incluse. Come già detto posseggo entrambe le versioni e anche se Il Mio Disco resta in ogni caso il doppio vinile, la versione live di "Maybe I'm A Leo" è una rarità che non si può comunque ignorare.

Si tratta di due sessioni live registrate per la BBC nel 1970 (disco 1) e 1972 (disco 2) che però videro la luce soltanto nel 1980 (non entrerò nel merito della trovata commerciale) a distanza di ben quattro anni dallo scioglimento del gruppo, gruppo che fortunatamente tornerà sulla scena nel 1984 con il sempre valido "Perfect Strangers".

La prima traccia è la viscerale "Speed King". Ian Gillan (voce) all'inizio è leggermente sotto tono, ma lo sforzo di esserci compensa qualche leggera incertezza e, paradossalmente, lo fa apprezzare ancora di più. Grande interpretazione del resto da parte di tutta la band, in quegli anni certamente al culmine dell'affiatamento. Ian Paice (drums) è un vero trascinatore, e immersi nella sua corrente impetuosa Jon Lord (tastiere) e Ritchie Blackmore (chitarra) si divertono un mondo a "farsi il verso" mentre Roger Glover (basso) accompagna il tutto amalgamando il pezzo in un tutt'uno che lo rende un perfetto connubio tra rock'n'roll e hard rock. Forse la loro killer-song per eccellenza.

Segue "Child in Time" in una variante abbastanza distante da quella presente in "Made In Japan". Qui Gillan divaga leggermente rispetto alla versione in studio nel primo ritornello, pur restando inarrivabili (e inarrivati) gli acuti delle sue rabbiose grida. Nessun cedimento, nessun compromesso (ebbi la fortuna di vedere la stessa formazione nel '92 a Forlì alle prese con questo pezzo, e ancor oggi ringrazio Dio o chi per lui...). Per quanto Coverdale sia stato un singer eccezionale (e per certi versi il migliore nella storia della band, senza dimenticare le notevoli performance di Huges nella Mark III e di Joe Lynn Turner nella Mark V), la Mark II rimane, tra tutte, probabilmente quella più caratterizzante, incisiva e muscolosa. Blackmore è rabbioso e tagliente, tanto che la parte centrale del pezzo diventa a tutti gli effetti una sua proprietà; in "Made In Japan" le tastiere di Lord accompagnavano in sottofondo e in un certo senso alleggerivano la ruvidezza della sua chitarra; qui per i due minuti centrali esiste quasi solamente l'assolo di Blackmore in una versione più grezza e certamente non inferiore a quella presente in "Made In Japan". Un appunto a margine che comunque molti conosceranno già: il notissimo motivo di "Child In Time" fu cannibalizzato all'epoca da un'altra canzone di un anno più giovane, "Bombay Calling" degli It's A Beautiful Day (tra l'altro mi risulta che i Purple non abbiano mai fatto mistero di questo). Se di cover non si può propriamente parlare ("Bombay Calling" è un pezzo molto più breve e solo strumentale), nemmeno sarebbe lecito fare raffronti e paragoni tra due canzoni in ogni caso notevolmente differenti tra loro: "Bombay Calling" è al più una canzonetta gradevole e orecchiabile, "Child In Time" è stata e rimane prima di tutto un inno contro la guerra.
Segue "Wring That Neck", pezzo strumentale di 19 minuti, contaminato in più parti da brevi intermezzi alternati tra Lord e Blackmore. E poi divagazioni, sperimentazioni, connubi improbabili tra improbabili sonorità che spiazzano letteralmente il pubblico. Un pezzo divertentissimo da ascoltare e, immagino, da suonare. E anche se talvolta la prestazione di Lord alle tastiere denuncia qualche sbavatura e imprecisione, i suoni che questo signore riesce a cavare dal suo organo Hammond non hanno a che vedere con nient'altro di simile sul pianeta. Né allora, né adesso.
Chiude il primo disco "Mandrake Root", altra song da quasi 18 minuti dove Gillan conferma, se mai ce ne fosse ancora bisogno, le sue eccezionali doti vocali nella prima parte del pezzo. Anche qui trovano posto sperimentazioni sonore che restano a tutt'oggi ineguagliate, condite da una base ritmica assolutamente trascinante dove Paice dà l'idea di suonare con quattro mani e quattro piedi. Senza nulla togliere ai vari Lombardo, Bostaph o Christy, qui ci si trova di fronte a qualcosa di inaudito, specie se ci immedesimiamo in un ascoltatore che assisteva ad un?esecuzione del genere all'inizio degli anni 70.

Il secondo disco s'inizia con la classicissima "Higway Star", con tutta la band in spolvero nel riproporre, stavolta senza stravolgimenti e sperimentazioni particolari, il pezzo così come lo conosciamo nella versione in studio, anche se, al solito, in maniera molto più trascinante. Perché ogni canzone live dei Deep Purple della Mark II fa storia a sè, è un episodio unico ed irripetibile, niente a che vedere con scalette, tempi tecnici e lancette di orologio.
Segue "Strange Kind of Woman", un pezzo godibilissimo nella sua interezza e in modo ancor più particolare nella seconda parte, con l'irresistibile duetto Blackmore/chitarra Gillan/voce e l'altissimo urlo finale (più incisivo di quello presente in "Made In Japan") che lascia letteralmente senza parole. Tuttavia Gillan non è soltanto estensione vocale e urla stellari, anzi, dimostra di essere un eccellente professionista in ogni interpretazione e nemmeno qui delude le aspettative (altra nota a margine: molti singer odierni dovrebbero preoccuparsi di ritoccare meno le loro performance vocali in studio e impegnarsi un po' di più sul palco...).
Come dicevo, "Maybe I'm a Leo" è una chicca della versione su cd, con tastiere felpate e ammorbidite a contrastare i riffs ruvidi e ammiccanti di Blackmore. Il pezzo è piacevole, lo definirei anzi un vero sollazzo. Ascoltare per credere.
"Never Before", altro classico del gruppo, introduce "Lazy", in assoluto una dei miei pezzi preferiti tra tutta la produzione targata Deep Purple. La song si apre all'inizio con una sequela di suoni ipnotici che Lord estrae sapientemente dal suo fidato strumento, seguiti dal ritornello eseguito all'unisono con Blackmore. Pezzo irruente, impetuoso, con l'immancabile e canzonatorio intermezzo di Gillan e la sua armonica a bocca a cesellare un songwriting a metà strada tra un leggero boogie e il rock blues più frenetico che all'epoca si osasse suonare.
Ed ecco "Space Truckin'". 21 minuti e 46 secondi di delirio. Anche qui Gillan sforna una prestazione all'altezza della sua fama, ma non è certo l'unico ad eccellere. Perché dopo i primi 5 minuti di "sua competenza" il nostro si ritira diligentemente nell'ombra e lascia posto ad un rincorrersi di suoni, effetti e invenzioni composti da una lunghissima "suite" di tastiere e chitarre impazzite, rumori e distorsioni che catapultano l'ascoltatore in un guazzabuglio onirico assolutamente irripetibile. La batteria è una vibrazione continua, un battito incessante che non dà tregua, una cadenza che, con il basso di Glover, mescola perfettamente le tastiere di Lord prima e la chitarra malata di Blackmore poi. Sperimentazione pura che purtroppo nessuno oggi neppure si sognerebbe di azzardare. Si accomodi pure chi volesse fare un tentativo...
"Smoke On The Water" ricalca in buona parte l'esecuzione ascoltata in "Made In Japan" anche se l'avvio della song è più fedele alla versione in studio. Purtroppo Blackmore prima fa un pasticcio, ossia sembra perdere il tempo durante un semplicissimo accordo (intorno al minuto 2:40) e durante il noto assolo centrale non ci mette un granché d'impegno, anzi sembra proprio che qualcosa non vada. Nel complesso un pezzo comunque ben suonato e molto gradevole (eccezionale Lord) ma queste due sbavature di Blackmore (abbastanza evidenti in effetti) guastano l'armonia di una canzone che, per quello che rappresenta, non se lo meritava proprio; fu per questo, forse, che nella versione in vinile del 1980 lo spazio venne riservato ad altri pezzi a discapito di questo.
"Lucille" è il pezzo che chiude questo doppio album dal vivo nel modo più consono e allo stesso tempo insospettabile. "Lucille", per i pochi che non lo sanno, è una canzonetta scritta originariamente da Collins e Penniman (la versione certamente più nota è quella cantata da Little Richard, come ricorda Gillan in apertura del pezzo) e, a dirla tutta, l'originale non ha molto a che vedere e soprattutto sentire con quella riproposta dai nostri. Il pezzo è letteralmente magnifico, trascinante dall'inizio, reso ancor più coinvolgente dalle incitazioni di Gillan e dalle sue urla inconfondibili. Puro rock'n'roll come mai fu suonato, una vera ondata di adrenalina, un pezzo che si vorrebbe non finisse mai e che va a chiudere un doppio live che definirei assolutamente straordinario. 

Che altro aggiungere? Che esiste anche un altro doppio live dal titolo "Scandinavian Nights" registrato a Stoccolma nel 1970 e che alcuni danno in assoluto come miglior live del gruppo (beh, ci si trova tra l'altro, solo per fare un esempio, una "Wring That Neck" da "appena" 32 minuti, una spaventosa "Into The Fire", una "Child In Time" assolutamente eccezionale e una inedita "Paint it Black" rubata ai Rolling Stones: roba da urlo). In effetti potrebbe anche essere così. Magari invece è "Made In Japan" il loro live migliore, e probabilmente lo è. O forse "Made in Europe". O magari "California Jamming". O "Live in London". Eccetera. Il Mio Disco però è tutta un'altra cosa. E supera ogni altro live dei Deep Purple. Uno dei più eccezionali gruppi nella storia del rock.

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