Dopo dieci anni di dichiarazioni, attese, accuse e smentite, i Deep Purple, band culto dell’hard rock, si ritrova a Malibu per realizzare l’attesissimo ritorno : “Ci offrirono un anticipo di due milioni di dollari ed iniziammo a lavorare” dichiara Ian Gillan, voce storica del quintetto.
Nonostante le premesse, la band, guidata magistralmente da un ispirato Blackmore, realizza uno dei dischi migliori della sua produzione, secondo solo agli irraggiungibili “Machine head” e “In rock”. Non si trovano forse in questo disco i brani-simbolo che hanno fatto la storia del gruppo, o capolavori che facciano gridare al miracolo, ma si ascolta l’album riuscito di una grande band che sa di poter contare su un passato leggendario ed invidiabile.

L’apertura in crescendo con l’impareggiabile “Knockin’ at your back door” è una delle più incisive sin dai tempi d’oro, con un Jon Lord sopra le righe, a disegnare trame musicali suggestive, sottolineate dalle ammiccanti liriche di Gillan, che si allontanerà dalle sue consuete timbriche esasperate per divenire uno chansonnier di grande mestiere; “Under the gun” mantiene lo stesso gusto musicale schietto, seguita a ruota dall’infuocato hard rock di “Nobody’s home”, sospeso tra il glam e i Rainbow più radiofonici.
La successiva “Mainsteak”, in cui Gillan si diverte con licenziosi doppisensi, abbassa momentaneamente il registro qualitativo dell’album, proponendoci un rock stanco e poco originale, come lo sarà anche “Not responsible”, presentandoci uno spiraglio di quelli che saranno i Deep Purple negli anni ‘90.
“Perfect Strangers”, il brano più riuscito dell’opera è, a tutti gli effetti, uno degli ultimi classici del gruppo : dopo un’apertura oscura, entrano gli strumenti con un tema marziale per descrivere scenari decadenti . L’intera struttura del brano è giocata sull’imperioso riff di Blackmore, che modera gli eccessi virtuosistici offrendo una prestazione fatta di appassionato gusto musicale. Il livello rimane alto con lo scatenato rock ‘n’ roll di “Gipsy’s kiss”, colpevole però di riciclare alcune idee degli ultimi Rainbow, che diverranno un fantasma presente su molte parti dell’album, data l’evidente influenza di Blackmore sul processo di scrittura del gruppo.
“Wasted Sunsets”, introdotta da un ispiratissimo fraseggio di chitarra, richiama le atmosfere drammatiche di una “When a blind man cries” o i delicati lamenti di “Soldier of fortune”, dove voce e chitarra si inseguono in modo straziante nelle spire di un tormentato rock-blues. Un capolavoro dei Purple, purtroppo mai eseguito dal vivo. La successiva “Hungry daze” non aggiunge molto agli episodi già descritti, risultando accattivante quanto basta per entrare a pieno diritto nel repertorio dei must del gruppo, anche se la struttura riprende cliché compositivi già noti .

“Perfect strangers” si dimostra un album privo delle eccezionali intuizioni che portarono i Purple alla gloria negli anni ‘70, vincolato alle strutture che li hanno resi grandi. Nonostante ciò i Deep si dimostrano ancora capaci di creare grandi canzoni, come raramente saranno in grado di fare nel ventennio successivo.

Carico i commenti...  con calma