Provo massima simpatia per questo onesto, laborioso, simpatico e coeso gruppo proveniente dall’industriale ed operosa Sheffield, al centro dell’Inghilterra. Continuano tuttora a stare insieme a far musica, sempre gli stessi da un quarto di secolo, pur avendo realizzato da tanto tempo in qua che i tempi di vacche grasse degli anni ottanta non sono più ricreabili.
Il produttore di allora Mutt Lange (l’uomo dietro alla consolle nell’epoca d’oro di gente come AC-DC, Foreigner, Bryan Adams… insomma un guru dell’hard rock melodico e accessibile) ha insegnato loro molto bene come si producono i dischi di rock tosto ma commerciale e il quintetto esegue ancora di buona lena: i suoni sono poderosi ma scorrevoli, gli assoli brevi, ragionati e ficcanti, non si lesina al solito sui cori e sulle sovra incisioni.
Certo, si sa che questo genere di rock fu messo fuori moda dall’ondata proveniente da Seattle nei primi anni novanta, ma è passato così tanto tempo… lo stesso grunge è da un pezzo tornato nell’underground da cui era venuto, perciò queste ed altre fasi di evoluzione del rock possono attualmente essere viste tutte con la stessa prospettiva. E allora è solo questione di gusti... i miei personali mi portano a tornare episodicamente sulle attuali, residue uscite discografiche di AOR, Class Metal eccetera, con moderazione visto che sono generi che al tempo assorbii in dosi da cavallo, restandone pressoché intossicato.
E’ tutto al suo posto in questo album: canzoni relativamente brevi compatte ed energiche, dirette ed accessibili, di moderato successo soltanto perché, nel 2008 anno di uscita del lavoro, avevano semplicemente strafatto il loro tempo. La voce del frontman Elliott non è mai stata tra quelle da rimembrare particolarmente del settore ma la sua faccia, il suo atteggiamento sono quelli onesti e giusti; i due chitarristi Collen e Campbell lavorano perfettamente in team, si suddividono le partiture ed è difficile distinguerli perché hanno stile assai simile; la sezione ritmica formata dal bassista Savage e dal batterista Allen esegue con bella creatività melodica e prestante attacco ritmico quello che c’è da fare, il che ha del miracoloso per Allen, da trent’anni a questa parte costretto a suonare con un solo braccio dopo l’amputazione subita a seguito di un incidente d’auto.
Gli episodi migliori trovo che siano innanzitutto “Come Undone”, che propone il solito riffone alla Led Zeppelin ma poi lo stempera nell’attraente, gigionesca modulazione di accordi del ritornello, specialità della casa insieme ai sonorissimi cori, frutto di accurati ed abili affastellamenti di voci in studio (e che dal vivo i Leppard non riescono minimamente ad avvicinare, purtroppo per loro). Poi “Hallucinate”, che il cantante affronta un po’ in stile Bryan Adams e questi sono le conseguenze del comune produttore, probabilmente. Altra buona cosa è “Nine Lives”, Leppardiana anch’essa fino al midollo (gli anni novanta col maldestro tentativo di riciclarsi con i suoni modaioli provenienti da Seattle sono oramai lontanissimi e dimenticati), con le chitarre stoppate e claustrofobiche nelle strofe che si aprono in accordi pieni e pads vari nei refrain. In “Only The Good Die Young” spicca nell’arrangiamento un simil mellotron a’la “Strawberry Fields Forever”, prima che la ritmica si scateni e se lo inghiotta.
L’album non arriva neanche ai quaranta minuti: pochi assoli e variazioni, nessuna dimostrazione di virtuosismo, nessuna stranezza o autoindulgenza, il Leopardo Sordo ha sempre preferito far canzoni e non jam sessions, cercando e trovando anzitutto compattezza e riuscita corale nella loro proposta di pop “pesante” ma armonioso, rumoroso ma rotondo.
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