Dagli anni '90 il lo-fi è diventato molto più comune e accessibile, ma negli '80? Senza la consapevolezza che fosse in primo luogo accettabile come approccio alla registrazione/composizione, andare per quella strada ti costringeva a fare i conti col fatto che se avevi fortuna stampavi 500 copie in vinile e sparivi nel nulla. Solo degli americani della West Coast avrebbero potuto cavarsela e tornare a galla a decenni di distanza. Un' altra cosa da tenere a mente è questa: tranne i pochi illuminati che conoscevano già il lo-fi, se qualcuno si imbatteva in un disco siffatto, o pensava che erano degli squattrinati senza talento o rimaneva stregato dal fruscio del polleggio su vinile.

Il simpatico gruppo in questione fa chiaramente parte di questa categoria. La prima stampa del 1984 costicchia. Si sa così poco sul loro conto che fino a pochi anni fa si pensava fossero di LA, e invece il disco è stato registrato a La Mesa, ad una scoppiettata dal confine. E nel disco si sente che si è a metà tra due mondi, ad esempio nell'assolo di tromba della bella Jewel of the Hills. I paragoni più ovvi sono quelli con Daniel Johnston, ma in giro si nomina pure Half Japanese, e c'è del vero. Il disco passa da pezzi sofferti e lirici (Lost at Sea) a episodi di giocoso infantilismo (An Open Letter to eccetera). La mente, tale Joseph D'Angelo, nel disco utilizza, a fianco di strumenti convenzionali, tastiere giocattolo e chitarre di plastica, per un sicuro effetto naiveté, mai accostato a buchi, ma sempre arrangiato coi colori di una psichedelia da quattro soldi. Come sopra: consapevolezza. E' per questo che il disco ha affascinato. Saliscendi di placido cazzeggio, affidato a braccia aperte ad un mare profondo che a distanza di anni ne ha avuto pietà e l'ha spiaggiato su qualche costa telematica. Data questa descrizione alle 4 palle sembra davvero difficile arrivare, ma i piccoli trucchetti del disco si rilevano dopo il secondo ascolto. Questi bislacchi ritornelli 3x2 nascondono più ciccia del previsto. Si parla di un chitarrista scafato che tinteggia ogni pezzo con fraseggi elementari ma simpatici, un'aderenza del cantato al ritmo che evita l'effetto si-sto-cantando-a-caso-e-lo-so (e che in ultima analisi sia evita cadute nel cattivo gusto sia valorizza l'effettivo valore delle composizioni che non sembrerebbero idiote se riregistrate) e davvero rispetto a tantissime produzioni lo-fi odierne lo sforzo di rivalutazione del mezzo compositivo è intenso; oggi fare lo-fi significa fingere bene di fare le cose male, qua è un po' il contrario: in sostanza è un gran bel disco nel genere.

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