Puntuali come un orologio a cucù della Selva Nera, i Depeche Mode rompono il loro consueto quadriennio di rispettive pause di riflessione annunciando - un po' in sordina - l'atteso comeback. Come da copione, Gahan & co. puntano in primis sulla nuova tourneé mondiale primaverile-estiva e pubblicano la lista completa delle date (fra le quali spiccano Milano e Roma) e solo successivamente svelano i succosi dettagli su disco e lead single. Delta Machine e Heaven, titoli rispettivamente di album e brano, compaiono sul web come un fulmine a ciel sereno: sei a conoscenza di un nuovo lavoro dei Depeche Mode per l'anno in corso, casualmente apri la loro pagine wikipedia (meglio se in lingua inglese, molto più ricca di contenuti e attenta ai minimi cambiamenti) e ti si parano davanti disco, singolo, cover (non particolarmente affascinante), tracklist, con allegata la data di rilascio della traccia-apripista e il relativo debutto sulle frequenze radio.

Delta Machine giunge quattro anni dopo la discreta avventura di Sounds of The Universe, una buona produzione dark-synth a cavallo fra avanguardismo e retrospezione che ha letteralmente polarizzato gli aficionados della band inglese, turbati dalle aspettative un po' smorzate del singolo Wrong, incapace di reggere il pesante confronto con pietre miliari quali Precious, I Feel You, Barrel of a Gun e, naturalmente, i capolavori dell'era Violator. I conclamati "suoni dell'Universo", a detta dei più feroci critici, non hanno saputo portare avanti il percorso creativo intrapreso con l'oscuro ed enigmatico Playing The Angel e hanno rovinosamente ripiegato verso un miscuglio di elettronica anni '80 e sbarazzine suggestioni artefatte del fin troppo glitterato pop contemporaneo; neanche la presenza di ottime fatture come Hole to Feed, Corrupt e In Chains hanno garantito pareri unanimi e dunque, dimenticata frettolosamente l'ennesima compilation di rimaneggiamenti Remixes 81-11, solo l'approdo del 2013 avrebbe scongiurato o meno il declino di una delle più rocciose vestigia del Glorioso Decennio.

Il ritorno con Heaven è ancora difficile da giudicare e, probabilmente, neanche un numero infinitamente maggiore di ascolti del brano potrà fornire una corretta valutazione di quello che saranno Delta Machine e gli altiforni sulla copertina. Iniziamo a dire che il singolo di lancio non riesce, purtroppo, a replicare la potenza degli apripista del passato e non è il classico latore di energia retrò-synth à la Precious: una sorta di slowjam a cavallo fra country, blues, rock alternativo ed elettronica centellinata, Heaven pare all'ascoltatore attento un "minestrone" di tutto il trentennale repertorio proposto da Gahan e soci. Nel brano c'è, infatti, di tutto e di più: si parte con un intro vagamente ispirato alle atmosfere oniriche di In The Air Tonight di Phil Collins, poi ci si immerge in una lenta strofa che riprende il ricordo dell'overdose quasi fatale delle tracce di Ultra (Sister of Night, Useless); giunti al primo ritornello, ecco spuntare i vocalizzi dell'immancabile Martin Gore il quale, inevitabilmente, ci inserisce i poetici lamentii teatrali dei brani da lui esclusivamente performati (One Caress, Jezebel, Home). Il resto del brano non muta di particolare dinamismo e fonde insieme tutto - o quasi - il canzoniere delle ballads proposte negli ultimi vent'anni, venandolo con corpose componenti country e blues, peraltro già sperimentate in passato e in odore di prossimo recupero.

In sostanza, Heaven è certamente un brano che premia la versatilità da parte della storica formazione e l'apprezzabile tentativo di affrancarsi dall'ormai inflazionatissimo synthpop commerciale, tuttavia fallisce - a mio avviso - nel dimostrare il dinamismo e la verve di persone che hanno scolpito su disco uno dei graffiti miliari della storia del "pop" alternativo. Non rimane altro che aspettare, trepidamente, l'uscita del quattordicesimo prodotto in studio made in Depeche Mode, il quattordicesimo step verso l'Olimpo dei sopravvissuti.

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